Gianluca Paolucci, La Stampa 16/5/2009, 16 maggio 2009
MARCHIONNE E GLI STATES, LA RIVINCITA DELL’EMIGRANTE
Scusa, ma chi te lo ha fatto fare?», chiede il manager al banchiere, «un ragazzo di 44 anni che ha lasciato un lavoro strapagato a Wall Street» per lavorare nella task force di Obama per l’auto e per cercare di salvare le Big Three di Detroit dal collasso. «La risposta è stata: perché vorrei che nella mia lapide venga scritto "ha fatto una differenza". Questo è lo spirito con il quale stanno lavorando, ce ne sarebbe bisogno anche in Italia». Il manager che pone la domanda, mentre sta fumando l’ennesima sigaretta durante una pausa della lunga trattativa per Chrysler, a Washington, sulle scalinata di fronte agli uffici del Tesoro, è Sergio Marchionne. La risposta del «ragazzo di 44 anni» serve a Marchionne per raccontare l’America di Obama, un «fatto culturale» che va al di là della lingua, della provenienza, fatto di spirito di sacrificio e di voglia di ripartire. Riassunto nella sua spiegazione del «Chapter 11», la legge fallimentare Usa. «Da noi fallire è impossibile, là è una opportunità per ripartire».
D’altra parte quella per Chrysler senza gente con quello spirito con la quale trattare non sarebbe stato possibile giocarla, per la Fiat. E senza la vittoria di Obama non sarebbe stata neppure pensabile. Non solo per lo «spirito» che ha portato il presidente, ma anche per un fatto molto, molto concreto come la sua idea rispetto alla necessità di un intervento dello stato per sostenere l’economia.
L’ammirazione per il presidente Usa e per la sua «avventura incredibile» è evidente: legge in inglese un passo del discorso del 4 novembre a Chicago, la notte della vittoria elettorale. E in effetti sì, l’accento italiano che quando arrivo in Canada gli causò qualche impiccio con le ragazze è sparito, («ci sono voluti sei anni, poi mi sono rifatto»). Discorso memorabile che Marchionne si è perso, dice al direttore de La Stampa, Mario Calabresi. Era a New York e stava lavorando su Chrysler. La partita per la casa di Detroit era infatti già in pieno svolgimento. nata un anno fa, qui a Torino. «Tom LaSorda (vicepresidente esecutivo della casa americana, ndr) è venuto qua, loro avevano bisogno di tecnologia per fare auto più piccole e dai consumi più bassi e non avevano tempo di svilupparla in proprio». Da lì sono partiti i contatti, le prospettive, l’idea di entrare direttamente nella partita. Senza il senso della «rivincita dell’emigrante» che salva uno dei simboli del Made in Usa. «Hanno bisogno di tecnologia e noi diamo loro tecnologia, ci stanno pagando con il 20% di Chrysler, ci stanno pagando così». Andrà lui stesso a gestirla, conferma, «almeno per farla ripartire».
Un modello che bisogna stare guardare con ammirazione ma non acriticamente, avverte Marchionne. «Importare quel sistema qui non si può fare». Diverso, dice, cercare di farlo in una grande azienda come la Fiat. Rievoca il drastico cambio di dirigenti del gruppo, una delle prime misure prese appena arrivato al Lingotto cinque anni fa: «Abbiamo tolto tanta gente che era lì da anni, incrostava l’azienda, era come il colesterolo nelle vene dell’azienda». Al loro posto una fila di quarantenni, motivati e con tanta voglia di cambiare. Il merito della rinascita del Lingotto va a loro, dice Marchionne, così come Obama quel quattro novembre ringrazio i ragazzi che avevano lasciato la casa per «guadagnare poco e dormire meno», come quel «ragazzo di 44 anni» con il quale fare due chiacchiere fumando una sigaretta che ha lasciato il lavoro strapagato a Wall Street. Il problema, quando hai fatto cose come riportare un’azienda sul lastrico a guadagnare soldi e vendere macchine come dieci anni prima, quando aveva oltre il 10% del mercato dell’auto europeo, «è che quando hai fatto quello non puoi fare altro». E allora Chrysler, forse Opel, magari anche Saab e le molto redditizie attività di General Motors in America Latina. Marchionne passerà molto tempo in Usa, a Detroit. Anzi, a Auburn Hills, dove c’è la sede della Chrysler. «La superfice coperta più grande degli Usa dopo il Pentagono» ricorda. Un edificio enorme, pensato per «fare» auto, progettarle, realizzarle, farle funzionare. «Un edificio enorme che per metà è vuoto, per colpa della crisi dell’azienda. Lì andranno a lavorare anche dei ragazzi italiani, ce ne sono già quaranta». Il sogno, ma non lo dice esplicitamento, sarebbe quello di riempirlo di nuovo. Intanto c’è da far ripartire Chrysler e «ci stiamo ammazzando per farlo, mi creda».