Mimmo Candito, La Stampa 17/5/2009, 17 maggio 2009
SONIA GANDHI, LA VEDOVA ITALIANA CHE GOVERNA NELL’OMBRA
Se c’è una cosa che non bisogna mai ricordare di Sonia Gandhi in pubblico, quando non la si voglia danneggiare, è che lei è in realtà la signora Edvige Antonia Albina Maino, nata a Lusiana, piccolo borgo del Vicentino, angolo agricolo della provincia italiana. E questo, non perché lei debba nascondersi un passato che celi colpe o vergogne, ma soltanto perché quel passato anagrafico, e quel nome, denunciano una identità che il nazionalismo indiano avverte tuttora come una insopportabile violazione dell’orgoglio indù. Lei è «la straniera».
In tempi nei quali il dibattito sui colori della pelle e sulla nazionalità di uomini e donne in cerca di speranze di vita inquina pesantemente un mondo che subisce, spaesato, i drammi della migrazione e il meticciato inevitabile di flussi biblici nella storia dei popoli, dovrebbe suscitare un qualche stupore questa chiusura d’una società che pure ha miriadi di etnie, di lingue, di tradizioni, di sentimenti religiosi. Ma è l’anima eterogenea dell’India che cede talvolta alla pressione fanatica di intolleranze che ne disegnano le paure e i pregiudizi, e fu solo la forza paziente dell’antico impero del Raj a tenere insieme le genti di questo immenso continente che oggi ha più d’un miliardo di cittadini, e furono poi la predicazione utopica del Mahatma Gandhi e l’abilità diplomatica di Jawarhalal Nehru a saper mantenere l’unità di tutti quei popoli che una bandiera innalzata sugli spalti del Red Fort nella notte del 15 agosto del 1947 raccoglieva simbolicamente come il progetto possibile di un futuro di libertà.
Quella storia unitaria e quel sogno che - ricordò Nehru parlando da quegli spalti - si faceva ora realtà, portano al proprio interno la frammentazione d’una società che non di rado viene traversata da esplosioni incontrollate di violenza di massa, che la stessa Partition ebbe drammaticamente a celebrare con quasi 5 milioni di morti nella separazione del Pakistan dall’India e che sono poi continuate nel tempo, con bagliori improvvisi, nelle stragi tra esponenti di caste diverse oppure nelle persecuzioni religiose, tra indù e musulmani, o ancora tra indù e cattolici. C’è un partito forte e di largo seguito, il Bharatiya Janata, una sorta di Lega induista, che raccoglie e interpreta pubblicamente queste spinte d’intolleranza nazionalista, e c’è un partito che gli si oppone, proponendo una eredità ricevuta dallo spirito nazionale ma tollerante di Nehru, il partito del Congresso. L’indignazione contro la «straniera» viene fomentata dal Bharatiya Janata, la sua difesa viene promossa dal partito del Congresso; e non solo perché le sue radici culturali siano diverse, ma perché del Congresso la «straniera» è il leader incontrastato. E la questione della identità si rivela una questione politica, strumentalmente di egemonia politica.
Sonia Gandhi è diventata «la straniera» quando il corso d’una vita che sembrava seguire itinerari d’ogni altro interesse le aprì, all’improvviso, le porte della politica. Nata nelle terre del Vicentino, arrivata bimba nella provincia torinese seguendo le sorti di un papà che veniva a cercare lavoro, da ragazza era andata a imparare l’inglese oltre Manica, pagandosi le spese con un impiego da cameriera nei pressi di Cambridge. E a Cambridge aveva conosciuto un giovanotto - uno straniero come lei - ch’era venuto a studiare in Inghilterra e che volle sposarla. Il giovanotto aveva un nome importante, Rajiv Gandhi, figlio di Indira, primo ministro indiano, e nipote di Nehru.
Erano storie da rotocalco, foto e sogni d’una ragazza di provincia; la politica - la grande politica - non stava nemmeno sullo sfondo di quella coppia, perché Rajiv amava il suo lavoro da pilota d’aereo, e la successione di Indira alla guida del partito del Congresso era stata assegnata al fratello Sanjay, brillante, estroverso, gran manovratore di fazioni e di correnti politiche. Ma la morte di Sanjay in un incidente aereo cambia la storia di Rajiv, portato di peso a trasmigrare in un terreno che mai l’aveva interessato, e con Rajiv cambia anche - inevitabilmente - la storia di quella signora «italiana».
Quando Rajiv è poi assassinato da un nazionalista Tamil, la signora «italiana» viene trascinata ad assumere l’eredità che la storia del Paese sembra obbligarle addosso: da Jawarhalal Nehru, a Indira Gandhi, al povero Rajiv, l’India aveva segnato la propria storia con la storia di quella dinastia che pareva investita, quasi, da un destino che soltanto gli dei possono giocare sulla vita degli uomini, e non è possibile andare contro i disegni degli dei.
Lei, «l’italiana», era intanto diventata cittadina indiana, parlava la lingua del suo nuovo Paese, vestiva il sari, celebrava con saggezza e naturalezza le feste ufficiali della terra che l’aveva accolta. Ma il progetto che la porta a guidare il Congress Party e a entrare da leader nel grande edificio ocra della Camera Bassa, nel centro monumentale di New Delhi, è un oltraggio insopportabile, mai il Lok Sabha, dal tempo dell’Indipendenza, è stato comandato da qualcuno che non sia nato in India, che magari porta anche il sari («ma come l’indossa male, si vede che lei non è di qui»), che va a celebrare i riti ufficiali («ma si vede che è spaesata, no?»), che pretende perfino di parlare lo hindi («disgustoso, quel suo accento italiano, proprio fastidioso»), e però come è mai possibile sopportare questa violenza all’orgoglio identitario di un Paese che ha segnato la civiltà del mondo? Sonia non è più la signora «italiana»; ora è diventata «la straniera», e va respinta.
Ma il partito del Congresso è un partito forte, con una capacità di gestione clientelare che le sottili arti dialettiche del Paese hanno cementato in quasi 50 anni di gestione del potere, e anche se una crisi di trasformazione dal vecchio socialismo alla Nehru al nuovo liberismo di Rao apre una parentesi di leadership politica e assegna per qualche tempo il governo al Bharatiya Janata, «la straniera» rivela una grinta e una sapienza politica che le fanno vincere presto ogni opposizione esterna al suo partito ma anche quella che manovra i corridoi del suo interno. Ha però un solo, ossessivo, progetto, questo nuovo leader: far dimenticare che lei è «la straniera», e mai allora lei mai compirà un qualche atto pubblico che possa farle ripiombare addosso la sua origine da altre terre.
E sacrifica a questo progetto, a questo impegno, che è il sigillo della sua vita, l’orgoglio di assumere nel proprio nome l’eredità della suocera, di diventare - lei, «la straniera» - il primo ministro di un Paese che è grande, immenso, complesso, quanto un continente. No, lei non sarà mai il capo del governo, rinuncia, si fa da parte; il suo ruolo si ferma alla guida del partito che è l’anima stessa della tradizione democratica indiana. E però, come il vecchio Nehru, come la potente suocera Indira, anche lei prepara la successione dinastica. Che sembra debba spettare a Rahul, un giovanotto che ha mostrato buone doti da leader politico e, dopo aver studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, si è anche guadagnato un seggio nel Lok Sabha, aiutato dalle straordinarie qualità promozionali d’una sorella, Priyanka, che molti giudicano la proiezione forte, carismatica, vincente, della mamma Sonia. E molti, anzi, vedono in Priyanka, indiana d’India, la vera erede di Indira Gandhi, quando il ciclo della «straniera» si sarà chiuso. L’India è uno dei Paesi leader del mondo che sta mutando rapidamente , il tempo dirà se il passato si allunga nel futuro.