Guido Ruotolo, La stampa 20/5/2009, 20 maggio 2009
I CINESI IN FUGA? DOVEVAMO TRATTARLI COME FOSSERO MAIALI"
Mi chiamo Ma Yin, sono nata il 7 luglio del 1975 a Xinjian. Laureata in economia e commercio, sono partita dalla Cina nel 1999 diretta in Turchia. Qui ho lavorato in una ditta di export-import di Liu Xiang Dong. Per cinque mesi, perché poi la ditta è fallita. Ho conosciuto A Jong in quel frangente. Pensavo che lavorasse nel settore della pelletteria. Lui è un tipo chiuso, che non parla molto. Poi ho saputo da altri amici il suo vero lavoro. Un giorno gli ho chiesto: ”Ma davvero tu hai la possibilità di far venire le persone in Europa?”. Lui rispose semplicemente: ”Sì”. Ecco, così ho capito il suo vero lavoro. E io poi l’ho aiutato. Un giorno, era il 2002, un mio amico mi telefona dalla Cina: ”Presto in Italia ci sarà una sanatoria”. E io allora ho deciso di voler venire in Italia».
Ma Yin è la prima cinese pentita (vive sotto protezione). Ai magistrati della Procura di Ancona ha svelato dall’interno i meccanismi che regolano la tratta degli esseri umani, il traffico di clandestini. Un flusso inarrestabile. Ancora più misterioso quando si tratta di cinesi.
Una comunità chiusa, impenetrabile. In Italia sono oltre 150 mila, la quarta comunità straniera presente nel Paese. Ma a differenza delle altre, i cinesi sono uno Stato nello Stato che offre servizi e tutele: istruzione, reperimento di alloggi, assistenza sanitaria. E documenti e permessi di soggiorno falsi. Anche lo svago, sale giochi, prostituzione. Naturalmente, ci sono i cinesi integrati, gli imprenditori di successo, aziende affermate e tante fabbrichette del tessile e della pelletteria. Poi ci sono le joint venture con i Casalesi e il mondo della contraffazione, che in Cina ha la sua sede sociale.
«Mi raccomando... li mandi su come fossero maiali... tu non devi parlare con loro...». A Jong parla al telefono con la sua compagna che si trova in Grecia, Ma Yin. Lui è il «padrone» che vive in Turchia e da qui gestisce il traffico di clandestini cinesi diretti in Italia e in Europa. Ma Yin, la sua compagna, deve curare un trasferimento di clandestini dalla Grecia ad Ancona e poi in Francia. E il «padrone» le dà le direttive su come deve gestire il viaggio dei connazionali.
Il pentimento di Ma Yin è ancora più importante perché matura dopo il suo arresto, dopo che il Ros dei carabinieri e la Procura di Ancona avevano intercettato, pedinato, arrestato i trafficanti. Lei, dunque, diventa il grimaldello per sfondare quel muro di impenetrabilità che contraddistingue la macchina da guerra dei trafficanti di merce umana.
Hua Ye Zheng è una ragazza dello Zhejiang. Il suo sogno è quello di arrivare in Italia. Un giorno i fratelli Hong di Pechino, i «padroni», le raccontano che avrebbero trasformato il suo sogno in realtà, e per giunta senza che lei dovesse spendere uno yen. Era giugno quando Hua e altri connazionali cinesi partono per il viaggio della speranza. Prima tappa Giordania. Ed è qui che la ragazza consegna il suo passaporto a un altro connazionale. Arriva in Turchia e prosegue, a bordo di una piccola imbarcazione, per la Grecia. Il «grande fratello», un altro cinese, la prende in consegna. Soggiorno drammatico. Viene molestata, apprende che deve pagare un riscatto per essere liberata. Hua, impaurita, dice ai suoi carcerieri che possono rivolgersi alla sorella che si trova in Italia, per il riscatto. Si apre la trattativa, il cognato - che intanto si era rivolto ai carabinieri - porta, alla stazione Termini di Roma, 12 mila euro all’organizzazione. Il riscatto è stato pagato, la ragazza può essere liberata. Su un traghetto di linea arriva, con altri sventurati connazionali, ad Ancona e poi, in treno, a Roma. Alla polizia di frontiera esibisce il suo passaporto (falso) giapponese. E’ libera, finalmente. Un viaggio durato quattro mesi.
Storia giudiziaria. Ma Yin racconta il dietro le quinte del sequestro di Huang Lyfen e di altri dieci cinesi. «Un giorno A Jong mi lascia dicendomi che andava a prendere una decina di amici che vogliono andare in Europa e che si trovavano a casa di un’altra persona. Con la sua jeep Suzuki ne portò tre alla volta. Avevano soldi e passaporti. I soldi servivano per le spese personali. I passaporti invece li aveva requisiti A Jong. Le donne in una stanza, gli uomini in un’altra. Quando uscivamo, A Jong chiudeva sempre la porta a chiave. Loro erano prigionieri, nei fatti. La storia di quella ragazza violentata e incinta? Lei mi disse che era stata consenziente. In ogni caso voleva abortire. L’accompagnai in ospedale ma per fare l’intervento c’era bisogno del consenso dei famigliari».