Pierluigi Battista, Corriere della sera 20/5/2009, 20 maggio 2009
«LA NOSTRA STIRPE E’ INFERIORE» I MERIDIONALI TENTATI DAL RAZZISMO
Lo spettacolo dell’immondizia che rigurgitava sulle strade di Napoli non ha risvegliato tanto le geremiadi sulla «questione meridionale », quanto piuttosto le ossessioni della «questione antimeridionale»: quel groviglio di pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni che da due secoli almeno fanno del Sud italiano il terreno di scontro delle più fantasiose ideologie. Di tutti i più disparati esperimenti ideologici. Compreso quello, ricorda Marco Demarco nel suo ultimo libro Bassa Italia (Guida editore, pp. 208, 12), che ha dominato la cultura progressista: «Perché rimuovere il fatto che negli anni dell’unificazione italiana, parte della sinistra meridionale era dichiaratamente razzista, nel senso letterale di ritenere i meridionali appartenenti a una razza inferiore? ».
«Razzista» parte del meridionalismo di sinistra? Demarco ricorda l’esempio più controverso, quello di Giustino Fortunato (ricordato da Croce ma dimenticato da stuoli di meridionalisti, compresi i più illustri). Il grande storico, immerso nel clima positivista dell’epoca, che nel 1904 avanzava il «sospetto che essendo il grado di sviluppo fisico e morale di un popolo correlativo alle condizioni di clima e di suolo, le cause del ritardato progresso fossero particolarmente da ricercare in queste » e notava che la nuova nazione italiana è formata da «due stirpi originariamente dissimili, l’una prevalente al Nord, l’altra al Sud del parallelo di Roma, bionda e di statura alta la prima, bruna e di viso ovale la seconda, sottoposte a ineguale vicenda di nascita, di vita e di morte, a un diverso atteggiamento dello spirito e dell’intelletto ». Per Massimo L. Salvadori, nota Demarco, il razzismo di Fortunato era un «luogo comune del positivismo», una «convinzione secondaria e tardiva, frutto di un tragico scoramento che sopravanzava » e per Giuseppe Galasso è addirittura sbagliato definire «razziste» le sue parole. Ma che dire del lombrosiano Giuseppe Sergi, che «arriva alla distinzione tra brachicefali e dolicocefali», i primi «la razza superiore, evoluta, nordica» e i secondi, «quelli del cranio lungo, la razza inferiore, degenerata, mediterranea»? O del «più appassionato dei lombrosiani», Alfredo Niceforo, che sulla base di una teoria del clima che «si è cristallizzato nei tessuti degli individui», giunge alla conclusione che «nel Sud ogni organamento sociale è impossibile»?
Non sono eccentricità, bizzarrie tenute ai margini del confronto delle idee. Dimostrano che nella discussione sul Sud, sui caratteri della gente meridionale, sul destino storico e antropologico del Mezzogiorno, la maledizione di una irriducibile e irrimediabile «diversità», la disperazione di un enigma irrisolvibile ha spinto studiosi e analisti a dare il peggio di sé, a cercare la scorciatoia in cui il pregiudizio vestisse i panni dell’argomentazione «colta»: sia nel mondo conservatore sia in quello progressista. Sia al Nord sia al Sud. Sia tra i settentrionali sia tra gli stessi meridionali. Si scontrano, in questo secolare affresco della «questione antimeridionale» affrontata da Demarco, il «pregiudizio» di chi non riesce a capacitarsi del destino di inferiorità che sembra condannare per l’eternità una «razza maledetta», e l’«orgoglio» di chi ha tentato, soprattutto a Napoli e in Sicilia, di rovesciare il senso di inferiorità nella rivendicazione di una «superiorità». la tendenza autocelebrativa e autoconsolatoria che con una certa severità Demarco definisce «quel pensiero un po’ ruffiano che trasforma in virtù i vizi dei meridionali », l’esaltazione del «pensiero meridiano» glorificato da Franco Cassano o la critica ai mali dello «sviluppo» di impianto nordista, sviluppata da Piero Bevilacqua, ai cui nefasti effetti il Sud non sviluppato si sarebbe paradossalmente e provvidenzialmente sottratto. Ma in tutti questi filoni, quelli del «pregiudizio » e quelli dell’«orgoglio », prende forma un’ideologia dell’impossibilità per il Sud di salvarsi, di evitare quell’immagine del disonore e della disperazione che si è materializzata con la Napoli sommersa dalla «monnezza ».
Quel senso di impossibilità, racconta Demarco, che risale alle amare considerazioni di Vincenzo Cuoco, che si snoda lungo tutto il Novecento, nelle discussioni infervorate ma segnate da una sottile disperazione storica che hanno coinvolto storici e giornalisti, politici e scrittori, gli Antonio Ghirelli, i Raffaele La Capria, i Paolo Macry. E mentre tutta l’attenzione della polemica antimeridionale si dissolve nella pubblicistica sulle invettive leghiste (ma Demarco fa giustamente notare che le grida della Lega sono più dirette contro «Roma ladrona» che contro i «terroni»), la crisi profonda della sinistra nel Sud, primo fra tutti l’esito fallimentare di quello che con una certa consuetudine apologetica è stato ribattezzato «Rinascimento » napoletano e campano, mette in luce il drammatico smarrimento di tutte le letture politicamente progressiste del Mezzogiorno. Uno smarrimento che, a scorrere le pagine del libro di Demarco, risale a molto lontano. Fino a lambire territori insospettabili, imbevuti anch’essi di pregiudizi para-razzisti.