Fabrizio Galimberti, Luca Paolazzi, ཿIl Sole-24 Ore 20/5/2009;, 20 maggio 2009
LE MATERIE PRIME SENTONO LA RIPRESA
Il mondo, si dice spesso, è diviso in due. Nel caso specifico la barriera virtuale separa chi sostiene che la troppa moneta messa in circolo dalle Banche centrali scatenerà un’ondata inflazionistica, che aiuterebbe comunque a raddrizzare i conti pubblici (un esproprio dei risparmiatori di oggi a favore delle future generazioni). Da chi invece ritiene che la capacità produttiva inutilizzata è così elevata (7-8% del Pil) da richiedere molto tempo prima di essere assorbita e quindi determinare uno scenario di lunga deflazione. Per evitare sia Scilla sia Cariddi, occorrono due condizioni: un notevole tempismo delle politiche monetarie nel drenare liquidità senza uccidere la ripresa nella culla (di "infanticidio" preterintenzionale si macchiò la Bank of Japan nel 1995) e un ritorno lesto ai livelli di attività pre-crisi. Il sentiero è perciò molto stretto.
Il rialzo rapido delle materie prime negli ultimi mesi sembra portare acqua al mulino degli "inflazionisti": in dollari il petrolio è salito del 68,2% e gli input industriali
(indice Economist) del 31,3% dai minimi di febbraio. Ma se osserviamo le dinamiche dei prezzi al consumo questi aumenti non hanno lasciato tracce profonde: la dinamica annua è dello 0,6% in Eurolandia, del -0,3% in Giappone, del -0,7% negli Usa. Più che mettere in moto processi inflattivi, quei rialzi delle commodity hanno attenuato la caduta degli indici dei prezzi. Più in generale, vanno presi non come minacciose forze che causano spinte sui listini ma come mansuete variabili che obbediscono al risveglio della domanda globale; e quindi come un segnale di avvio di una fase positiva del ciclo. Tanto più se la partenza avviene nei Paesi emergenti, affamati di materie prime.
La determinante principale dell’inflazione nei paesi industriali resta il costo del lavoro.
La cui dinamica segue le oscillazioni della disoccupazione. Negli Stati Uniti già lo fa: la crescita della paga oraria è passata dall’1% a trimestre tenuto fino a dicembre 2008 allo 0,4% di aprile 2009. In Eurolandia è più lenta ad adeguarsi: gli incrementi concessi nei nuovi contratti sono passati dal 2,1% nel quarto trimestre 2007 al 3,6% nel quarto 2008. Sono cifre tuttavia un po’ obsolete, visto che i contraccolpi della crisi sul mercato del lavoro hanno cominciato ad arrivare dopo.
I margini delle imprese vengono però erosi. A causa soprattutto della caduta della produttività. I dati Ocse sul clup industriale nel quarto trimestre 2008 mostrano un incremento del 4,2% annuo in Usa, del 2,9% in Eurolandia e del 7,3% in Italia; una tendenza che è peggiorata con la fortissima caduta del Pil nel primo trimestre 2009.
In Usa, dove i dati già ci sono, nel manifatturiero il clup è balzato del 2,8% sugli ultimi tre mesi 2008, nonostante tagli occupazionali del 4,5% (600mila posti in meno). I margini recupereranno assieme ai livelli produttivi.
Indicatori reali
Il fondo è stato toccato. Ma è assai
profondo. Il puzzle dell’evoluzione della crisi sta proprio nel diverso significato che oggi hanno le variazioni rispetto ai livelli. Un incremento dell’attività produttiva, come si sta delineando per l’estate (in base a molti indicatori anticipatori) è sicuramente una buona notizia. Però potrebbe non bastare, come nei passati cicli economici, a far tornare il sorriso se non sarà sufficientemente robusto da colmare rapidamente il buco di domanda
che è stato creato dalla recessione. Perché in molti settori gli attuali livelli di attività comportano interi impianti completamente fermi e molta manodopera in eccesso. Questo tende a frenare la ripresa, in un circolo vizioso, dove lentezza del recupero genera ulteriore lentezza (via minori consumi e investimenti).
Perciò la prova della verità sulla velocità e i tempi di uscita dalla crisi arriverà in autunno. Perciò mai come oggi è rilevante la forma della ripresa («V», «U», «L», «J rovesciata») su cui, come sempre nei momenti di uscita dalla recessione, si concentra il dibattito tra gli analisti della congiuntura. Le Borse scommettono su qualcosa che assomiglia più a una «V» che a una «U». Forse brindano solo allo scampato pericolo di un avvitamento.
Tassi d’interesse, valute, moneta
Con l’abituale ritardo rispetto al meritorio attivismo della Fed, la Banca centrale europea ha annunciato politiche di espansione quantitativa (Eq) della moneta. Questi acquisti di titoli potranno avvenire sia sul mercato che all’emissione, e per ora riguardano solo i covered bond ( titoli cartolarizzati che si distinguono dagli altri perché i mutui o le altre attività sottostanti rimangono nel bilancio della banca e quindi non spostano il rischio sugli acquirenti dei bond). Tuttavia, dato che non bisogna porre limiti alla Provvidenza, può darsi che in futuro l’espansione quantitativa si allarghi anche ad altri tipi di titoli, fino ad arrivare ( absit iniuria verbis) ai titoli pubblici (il trattato di Maastricht proibisce alla Bce di sottoscrivere titoli pubblici all’emissione, ma non proibisce di comperarli sul mercato secondario). Tuttavia, le caratteristiche del mercato dei capitali in Europa rendono poco probabile che la Bce debba avventurarsi in quelle terre quasi proibite. Per scongelare gli attivi delle banche basta sostenere i prezzi dei titoli privati in loro possesso. Piuttosto, sarebbe stato preferibile allargare la gamma dei titoli acquistabili a titolo definitivo oltre i covered bond, dato che il mercato di questi ultimi è molto concentrato (in Germania e Spagna), mentre le obbligazioni tradizionali emesse direttamente dalle banche sono più equamente diffuse. I vasi comunicanti della finanza non comunicano abbastanza, in questo caso, per esser sicuri che gli acquisti di covered bond non finiscano per favorire un mercato nazionale piuttosto che un altro.
In ogni caso, il problema n. 1 di questa crisi anomala non è più nei mercati finanziari. Questi non sono certo guariti, ma la piaga non sta più suppurando: gli
spread sugli interbancari sono quasi normali, le reti di sicurezza statali sono state tese e i problemi da titoli tossici sono stati circoscritti. Il problema n. 1 è ovviamente nell’economia reale e se ci sono problemi per l’economia finanziaria - come ci saranno - sono da ascrivere alla retroazione dalla "lamiera" alla "carta": la debolezza della domanda, il 4% in meno di Pil, non potrà non riverberarsi sulle sofferenze delle banche e queste si troveranno nella situazione di un convalescente che ha lasciato la camera di rianimazione, ma è stato trasferito in una corsia con le finestre aperte mentre fuori infuria la tempesta. Anche se gli spread molto più ampi sono un antibiotico potentissimo.
Lo stress test applicato in America alle 19 maggiori banche è la corretta risposta a questi problemi nella pipeline della congiuntura. La Fed, il Tesoro e la Fdic meritano 10 e lode per la trasparenza con cui hanno condotto l’operazione. Nel merito, è sempre possibile dissentire su questo o quell’aspetto di un esercizio che è basato su numerose ipotesi di scenari "stressati"; ma il fatto che i risultati non siano molto discosti da simili simulazioni condotte dall’Fmi e da economisti privati (Roubini) fa pensare che le conclusioni siano da accettare. Il capitale addizionale necessario non è di misura tale da renderne impossibile il reperimento sui mercati (e alcune banche lo stanno già facendo), ma in ogni caso rimane l’assicurazione della rete di sicurezza pubblica.
In campo valutario la situazione permane tranquilla. Lo yuan,
forse per rispolverare le credenziali come futura grande moneta che qualcuno vorrebbe attribuirgli, è stabile sul dollaro e anche lo yuan a 12 mesi ( non deliverable... dovrà essere deliverable se un giorno vorrà essere preso sul serio!) è appiattito sulla quotazione spot. Il dollaro/euro, dopo essere passato dalle stalle di un anno fa (fino a 1,60) alle stelle di qualche mese fa (1,25) si è stabilizzato intorno a 1,35 e non vi sono ragioni per attendersi ampie variazioni.