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 2009  maggio 18 Lunedì calendario

L’EX BIMBO DELLA STRAGE ORA DIFENDE LE VITTIME


BRESCIA – «La memoria va bene, ma non basta. Vorrei dei responsabili ac­certati, con nomi e cognomi, per chiede­re conto dei tanti morti e feriti innocen­ti, colpiti a caso per rafforzare o indebo­lire un ’quadro politico’. Ma non so a chi rivolgermi». Non aiutano nemmeno le parole del presidente della Repubbli­ca sul «peso» delle stragi rimaste senza colpevoli? «Certo che aiutano, perché danno più forza alle nostre richieste. Ma sono un po’ stanco di riti e discorsi sui macro-sistemi, sui ’contesti com­plessivi’, sulle verità storiche acquisite. Vorrei che emergesse qualcosa di con­creto sui singoli fatti, a cominciare dai depistaggi che hanno impedito di arri­vare alla verità giudiziaria quando si era ancora in tempo, denunciati proprio dal capo dello Stato».

Trentacinque anni fa Michele Bon­tempi era un bambino piccolissimo, e la sera del 27 maggio 1974, nella casa di Brescia in cui s’era appena addormenta­to, i suoi genitori s’incontrarono con un gruppo di amici, quasi tutti professori. Discussero della manifestazione antifa­scista convocata per l’indomani in piaz­za della Loggia, alla quale avrebbero par­tecipato. La manifestazione della stra­ge. Il 28 maggio alcune di quelle perso­ne morirono per lo scoppio della bom­ba: Livia Bottardi, Giorgio e Clementina Trebeschi. Pietro Bontempi, il padre di Michele, rimase ferito; l’altro bambino presente in casa Bontempi la sera pri­ma, Giorgio Trebeschi, restò orfano di entrambi i genitori.

Oggi Michele Bon­tempi è un uomo di 36 anni, affermato av­vocato penalista dello studio legale Frigo, e assiste le parti civili nell’ennesimo proces­so per la strage di Bre­scia che s’è aperto a novembre; insieme agli altri componenti del collegio di difesa rappresenta suo padre e le altre vittime dell’eccidio. L’impe­gno di chi all’epoca era un bambino di appena un anno nei rivoli giudiziari an­cora pendenti, intento a cercare qual­che brandello di verità tra migliaia di at­ti processuali in bianco e nero, è il se­gno tangibile del tempo trascorso inva­no da quella strage. E dell’ingiustizia su­bita da chi vi rimase coinvolto. «Ma in questo caso – dice l’avvocato Bontem­pi – non abbiamo a che fare col solito problema dei tempi lunghi della giusti­zia. Se siamo a questo punto, è perché nelle precedenti cinque istruttorie e ot­to processi (tutti conclusi con proscio­glimenti o assoluzioni per insufficienza di prove, ndr) c’è sempre stato qualcosa o qualcuno che ha impedito di arrivare a conclusioni diverse».

Uno dei tanti magistrati avvicendatisi nelle indagini, il giudice istruttore Giam­paolo Zorzi, ha scritto di essersi trovato davanti a un «meccanismo che fa lette­ralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto si propone quale ripro­va, se mai ve ne fosse bisogno, dell’esi­stenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qua­lunque momento e in qualunque luo­go ». Commenta l’avvocato: « un pas­saggio agghiacciante, soprattutto se si pensa che quel meccanismo è stato pro­babilmente attivato all’interno delle stes­se istituzioni che dovevano collaborare all’accertamento della verità».

Il processo appena cominciato, che con circa 2.000 testimoni durerà alme­no un paio d’anni, vede alla sbarra sei imputati «residuali» e nelle indagini so­no stati ipotizzati ulteriori depistaggi. «Questo è quasi certamente l’ultimo pro­cesso per le stragi rimaste impunite – spiega Bontempi ”, dove noi abbiamo il ruolo di sentinelle per controllare che la ricerca delle responsabilità individua­li non sia ancora una volta vanificata dal meccanismo che fino ad ora l’ha ostaco­lata ». Sfilano testimoni di ogni genere, davanti alla corte d’assise. Compresi quelli che dicono di non ricordare dove e quando parteciparono a campi d’adde­stramento paramilitare; o come e per­ché alcune informazioni sul possibile ruolo dell’estrema destra veneta, raccol­te nell’immediatezza dei fatti, si arenaro­no senza alcun approfondimento. L’av­vocato Bontempi, cresciuto fra gli echi e le rievocazioni della bomba di piazza del­la Loggia, ascolta e prende nota. A volte incredulo o scoraggiato, a volte fiducio­so. Suo padre, che si salvò perché protet­to dai corpi dei suoi amici morti, è dovu­to venire a deporre per l’ennesima volta sui fatti di quel giorno.

« un po’ grottesco – commenta il figlio Michele – che dopo tanto tempo si chieda alle vittime di continuare a ri­cordare i minimi dettagli. Ormai mio pa­pà ha maturato un atteggiamento quasi di distacco; forse è un modo per proteg­gersi e per proteggere noi come ha sem­pre fatto, anche quando ero bambino. In casa non ha mai parlato volentieri della strage, le cose che ho saputo nel corso degli anni me le ha raccontate mia madre. E ancora oggi, attraverso il materiale del processo, vengo a cono­scenza di particolari che mi avevano ta­ciuto. Mia nonna invece, che ha 90 anni e ha seguito con attenzione tutto il pri­mo processo, mi chiede sempre di tener­la aggiornata sugli ultimi sviluppi».

Per adesso, di rilevanti non ce ne so­no. «Però – insiste l’avvocato – confi­diamo che un testimone o un protagoni­sta delle cupe vicende di quegli anni, e di sicuro ne sfileranno alcuni che san­no, si decida a dire la verità, non aven­do magari più nulla da temere sul piano giudiziario. Per me questo non è un pro­cesso come gli altri, è ovvio, coinvolge la mia famiglia e i miei cari. Mio padre è vivo per caso, al mio amico d’infanzia Giorgio Trebeschi gli stragisti hanno cambiato la vita, così come a tutti i fami­liari delle persone uccise. Vorrei trovare qualcuno a cui rivolgere la domanda di fondo: chi e che cosa vi ha fatto credere di essere legittimati, per raggiungere de­gli obiettivi politici, qualunque essi fos­sero, a spezzare la vita di chi nulla ave­va a che fare con i vostri disegni e strate­gie? In trentacinque anni non ci siamo riusciti, questa è l’ultima possibilità ri­masta ».