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 2009  maggio 18 Lunedì calendario

CATASTROFISTI GLOBALI, LA STORIA VI SEPPELLIRA’


Ecco l’ennesimo esempio di allarmismo ingiustificato. Pronti ad affrontare una epidemia globale, a conti fatti ci siamo ritrovati con una banale influenza di stagione. Tre settimane fa l’Organizzazione mondiale della sanità sollecitava i governi a «prepararsi a una pandemia», per contenere il più possibile i danni inevitabili causati dal morbo. Gli esperti profetizzavano milioni di ammalati.
La settimana scorsa, tuttavia, l’Oms poteva confermare solo 4800 casi di influenza A e 61 decessi. Certamente, queste cifre irrisorie sono una gradita sorpresa, ma ci si chiede: come abbiamo fatto a prendere una simile cantonata?

Perché le previsioni della pandemia si sono rivelate fino a tal punto esagerate?

C’è chi accusa l’isteria mediatica, ma sarebbe stato difficile ignorare le massime autorità internazionali in campo sanitario e la voce dei governi che ci mettevano in guardia contro l’imminente catastrofe. A mio parere, tutti noi affrontiamo gli eventi su scala mondiale in modo sbagliato.

Quando mettiamo a fuoco un problema, sappiamo descriverlo fin nei minimi dettagli, ipotizzando tutte le possibili conseguenze. Eppure, ben di rado siamo in grado di prevedere la reazione umana alla crisi.

Prendiamo l’influenza A. Il virus possiede tutte le caratteristiche cruciali per mettere in ansia i ricercatori sulla rapidità e sul raggio della sua potenziale diffusione. Responsabili ed esperti hanno descritto quello che sarebbe accaduto se l’epidemia avesse trovato campo libero, e tutto questo è stato riportato dai media.

Ma resta il fatto che il contagio è stato vigorosamente contrastato proprio nel suo epicentro, il Messico. Il governo messicano ha reagito con prontezza e con dovizia di mezzi, isolando gli infetti, sottoponendo a controllo i casi dubbi, e fornendo medicinali a seconda delle esigenze. Secondo una celebre esperta in materia, Laurie Garrett, «Noi tutti dovremmo saltare in piedi e gridare Gracias, Mexico! perché i messicani non hanno badato a sacrifici. Anzi, mi chiedo se gli Stati Uniti sarebbero stati disposti ad emularli nelle medesime circostanze.

Hanno chiuso scuole, aziende, ristoranti e chiese, hanno cancellato gli incontri sportivi. In altre parole, hanno paralizzato l’economia. Le loro perdite finanziarie sono nell’ordine dei miliardi di dollari e ancora si contano i danni. Ma così facendo hanno sbarrato la strada all’epidemia».

Ogni qualvolta viene identificato uno di questi virus, ecco che giornalisti ed esperti agitano lo spauracchio dell’epidemia di Spagnola, che nel 1918 fece milioni di vittime. Al punto tale che nel corso dell’ultimo allarme di pandemia, nel 2005, l’allora presidente George Bush disse che si stava documentando sull’influenza spagnola per capire quali misure adottare.

Ma il mondo in cui viviamo oggi non ha nulla a che vedere con il 1918. La sanità pubblica è molto più efficiente e più diffusa di quanto lo fosse durante la Prima guerra mondiale. Persino il Messico, un Paese in via di sviluppo, può vantare un sistema sanitario di prim’ordine, molto superiore rispetto ai mezzi di cui disponevano Francia e Gran Bretagna agli inizi del ventesimo secolo.

Questo stesso modello di valutazione errata si ripropone nel dibattito sulla crisi economica globale. Nel corso degli ultimi sei mesi, il catastrofismo è partito in quarta. Economisti ed esperti finanziari fanno a gara per descrivere la prossima Grande Depressione. Se non fosse che il mondo di oggi ha ben poco in comune con quello degli anni Trenta: le società occidentali dispongono di una ricchezza ben più sostanziosa e capillare rispetto agli anni Trenta, e le classi medie possono affrontare la perdita dei posti di lavoro mettendo in atto strategie allora neppure immaginabili. Non dimentichiamo che la disoccupazione in tutti i settori, a esclusione dell’agricoltura, arrivò al 37 per cento nel 1930. Oggi negli Stati Uniti essa sfiora l’8,9 per cento. E gli ammortizzatori sociali – inesistenti negli anni Trenta – svolgono un ruolo cruciale nell’attutire i colpi inferti dal rallentamento dell’economia. La più grande differenza tra gli anni Trenta e oggi, tuttavia, sta nella reazione umana. Da un punto all’altro del globo, i governi hanno saputo reagire con ammirevole tempestività ed efficienza, abbassando i tassi di interesse, ricapitalizzando le banche e incrementando la spesa pubblica.

Le banche centrali – specie la Federal Reserve – hanno iniettato somme ingenti nell’economia. Mentre discutiamo sulle complessità di ogni mossa, resta il fatto che i governi hanno adottato tutte le misure disponibili per risolvere questo problema e, tenendo conto dell’inevitabile tempo di reazione, bisogna dire che già si riscontrano i primi effetti positivi. Questo non significa una ripresa senza sacrifici, né il ritorno a una crescita a pieno ritmo.

Significa, però, che è venuto il momento di abbandonare i soliti riferimenti alla Grande Depressione, quando le politiche adottate – specie dalle banche centrali – andarono tutte nella direzione sbagliata.

Viviamo in un mondo pericoloso, ma viviamo anche in un mondo che può vantare forze profonde e strutturali che ci assicurano stabilità. Abbiamo imparato la lezione della storia e costruito meccanismi efficaci per affrontare le crisi. Possiamo dire allora di aver sconfitto la paura? Sì, anche se l’emergenza resta la molla che ci spinge alla reazione – talvolta eccessiva – per far sì che una crisi non si trasformi in disastro. Il paradosso resta comunque questo: se i governi non fossero stati allarmati dallo spettro di una nuova Grande Depressione, forse ci saremmo ripiombati dentro a capofitto.