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 2009  maggio 17 Domenica calendario

«PETIT PRINCE» AUTOBIOGRAFICO - A

ndré Gide scrisse nella prefazione a Volo di notte
che il libro di Antoine de Saint-Exupéry gli aveva insegnato che la felicità dell’uomo non è nellalibertà ma nell’accettazione di un dovere. Era il 1931. Fino a quell’anno e per molto tempo ancora per l’aviatorescrittore il dovere ha un volto bifronte ma preciso: volare, per dimostrare l’ethos umano basato sul coraggio e sull’azione, e scrivere, per testimoniare di quell’ethos. Ma quando si rifugiò a New York alla fine del 1940, anche sul dovere le sue idee erano confuse.Smobilitato dall’esercito dopo l’armistizio se n’era andato dalla Francia, ma tra gli emigrés di oltreoceano non si sentiva a suo agio. Non amava De Gaulle e forse non amava neppure Vichy, ma era per costituzione e natura profonda un conservatore, tanto che Pétain lo aveva incluso tra i membri di un consiglio nazionale che avrebbe dovuto legittimare il regime. Lui, attirandosi gli odi degli antifascisti, sognava una Francia in cui non contassero le divisioni tra gli uomini, ma intanto, per le sue amicizie ebraiche e per la renitenza a schierarsi davvero col nuovo governo anche la destra alleata dei tedeschi gli faceva la guerra. Per questo, se l’America l’aveva accolto con tutti gli onori (non solo i suoi libri erano stati tradotti, ma Volo di notte era diventato un film di grande successo con star del calibro di John Barrymore, Clark Gable, Lionel Barrymore e Mirna Loy), la comunità dei suoi connazionali lo guardava con sospetto. Ma soprattutto a Saint-Ex, come avevano cominciato a chiamarlo in Francia dopo il successo, non piaceva che la postazione più alta da raggiungere fosse il ventisettesimo piano del suo appartamento in un palazzo che ne contava ventotto, al 240 di Central Park South. Rimpiangeva le trasvolate, il cielo, le stelle, i deserti, gli incidenti, la paura,l’eroismo.
New York era complicata anche per altre faccende e non bastavano «i bicchieroni di caffè», alternati a non meno capienti bicchieri di whisky con cui si attrezzava per sormontare la notte, a rendergliela più facile. Dopo mesi di lontananza, a novembre del ’41 si è fatto raggiungere dalla moglie Consuelo. Con lei, il piccolo vulcano del Salvador conosciuto durante la permanenza a Buenos Aires all’inizio degli anni Trenta e sposata poco dopo (la sposa radiosa è tutta in nero, in quanto già due volte vedova benché ventinovenne), Antoine è sempre stato ambivalente. Da un lato la sopporta a fatica. In primo luogo, Consuelo, che aspira a fare la pittrice ed è una brava pastellista, è troppo frivola e ciar-liera, non rispetta la privacy del marito e ha una sgradevole passione – ricambiata ”per i surrealisti che lui considera (e sempre più considererà dopo una violenta requisitoria di André Breton contro di lui sulle colonne del New York Times) totalitaristi come i nazisti. In secondo luogo, benché lui la sistemi al Barbizon Plaza prima di trovarle un appartamento nel suo stesso stabile ma tre piani sotto, è un’ulteriore complicazione nella sua già complicata navigazione in una costellazione di donne che sono, in fondo, il suo unico conforto:la prediletta Silvia Hamilton, bella e giovane giornalista di cui frequenta regolarmente la casa sulla Sessantesima, o Nathalie Paley, una Romanoff che vuole fare l’attrice e intanto si perde nell’oppio, o Nada de Bragance, anche se la più importante delle sue liaisons,
quella Nelly de Vogué che dopo la sua morte con lo pseudonimo di Pierre Chevrier scriverà la sua prima biografia, è in Francia, a distanza di sicurezza. Tuttavia, lui è uomo di tradizioni: la casa, la famiglia e, benché niente e nessuna possa competere con l’amatissima madre Marie de Fonscolombe, a sua moglie sente di dovere protezione e affetto.
Ma le cose tra loro non vanno bene neanche quando finalmente prendono, a Beekman Place, un appartamento in comune ӏ stato di Greta Garbo e lei lo ha arredato come un hotel particulier
parigino – dove fanno una grande festa con amici del nuovo e del vecchio mondo, da Jean Gabin a Marx Ernst alla giovane Peggy Guggenheim che seppellisce le bottiglie di champagne in giardino sotto la neve.
No, niente basta a risollevare Antoine dalla sua malinconia, né Consuelo, né le amanti devote e appassionate, né l’alcool, né gli amici, Jean Renoir per esempio che vorrebbe trarre con lui un film da Terre des hommes, né le lente riflessioni che va componendo per un libro che diverrà poi Citadelle. Gli manca il volo, gli manca la Francia, e gli manca anche il paradiso dei ricordi infantili, evocato con strani pupaz-zetti, animaletti, fiorellini che disegna qua e là. allora, nel tetro ’42, due anni prima della sua mi-steriosa morte in volo, mentre Saint-Ex già cerca di convincere gli americani ad arruolarlo nella loro aviazione, che il suo editore francese Eugène Reynal, ha un’idea: per sottrarlo alla depressione gli propone di scrivere un racconto per l’infanzia. Di cosa si tratterà? Naturalmente del
Piccolo Principe.
 questo funesto giro di anni americani il periodo che ricostruisce Alain Vircondelet in un libro che ha coraggiosamente intitolato La vera storia del Piccolo Principe, sfidando la sterminata bibliografia di SaintExupéry e dell’incantato racconto che ha venduto in tutto il mondo e in tutte le lingue ottanta milioni di copie.
Vircondelet è dalla parte di Consuelo,la moglie un po’ imbarazzante che secondo la perfida e brillante Louise de Vilmorin, prima fidanzata di Antoine, era rimasta con lui solo perché lui non era mai riuscito a sbarazzarsene e che fu emarginata nel mito postumo di Saint-Ex. Invece secondo il biografo, che ha a lungo lavorato sul materiale inedito del periodo newyorkese, la signora Saint-Exupéry è la vera ispiratrice della figura della Rosa nel Piccolo Principe (lei stessa lo sosterrà in un racconto autobiografico intitolato Memorie
della Rosa che sarà pubblicato in Francia nel 2000, ventun anni dopo la sua morte), il fragile e commovente fiore che il misterioso bambino caduto nel deserto dal suo asteroide non può dimenticare e a cui ritornerà. Nutrito dei ricordi e delle emozioni di Antoine, per Vircondelet, insomma, il Piccolo Principe è un’autobiografia mascherata. Del resto, Saint-Ex non era uno scrittore che inventava: lui raccontava ciò che aveva vissuto. E anche se sognava la "douce France" e inneggiava alla ricomposizione della patria lontana, non fece mai mistero, anzi lo dichiarò esplicitamente nelle appassionate lettere alla madre, che per lui l’unica vera patria, anzi l’unico vero paradiso era l’infanzia, l’infanzia che, parola di Stendhal, è interminabile.