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 2009  maggio 17 Domenica calendario

STREGATI DALL’UOMO COMUNE

Nel romanzo Il correttore di George Steiner, spicca il dialogo tra un comunista e un gesuita. Riflettendo sul crollo dei propri ideali, il primo ammette: «Sì, abbiamo sbagliato. Sbagliato mostruosamente, come dici tu. Ma il grande errore, quello di sopravvalutare l’uomo, l’errore che ci ha traviato, è in assoluto la mossa più nobile dello spirito umano nella nostra tremenda storia». Il secondo replica: «Il capitalismo non ha mai fatto questo errore. Non capisci? Il libero mercato si basa sull’uomo medio.E che media mediocre! [...] L’America è probabilmente la prima nazione e società nella storia dell’umanità a incoraggiare gli esseri comuni, fallibili e impauriti, a sentirsi a loro agio nella propria pelle».
Sono trascorsi quasi due decenni dal crollo del sistema sovietico in Europa. Nell’euforia di questa svolta è stata messa la sordina alle «promesse non mantenute» della democrazia, da allora spesso mostrata con il volto anemico e nelle vesti dimesse del regime più consono alle debolezze e alla generale mediocrità degli esseri umani. Per esorcizzare sia il progetto totalitario di fondare lo Stato etico o di costruire l’«uomo nuovo », sia quello giacobino di costringere i cittadini a essere liberi, la democrazia è stata privata di ogni aspirazione.
Essa ha però sempre oscillato tra la rassegnazione nei confronti del «legno storto dell’umanità»e la fede nella sua perfettibilità. Vive anzi della tensione tra la modestia delle sue pretese, che la porta ad accettare gli individui come sono (nella loro ignoranza, passività ed egoismo), e la volontà di renderli migliori.
Per principio ha attribuito capacità politiche a tutti, anche a coloro che non fanno parte delle élites, esaltandone le virtù quotidiane: la mitezza, il dubbio, la tolleranza e l’umiltà (in quanto coscienza dei limiti propri e altrui). Se già Pericle aveva sostenuto che l’attendere ai propri affari non impedisce ai cittadini ateniesi di promuovere il bene pubblico, l’America del New Deal – con la filosofia di John Dewey o i film di Frank Capra ”è giunta a celebrare l’«uomo comune » come cittadino ideale.
L’appiattirsi o l’affievolirsi di queste virtù (segnalate dal degradarsi della tolleranza in indifferenza rispetto ai propri valori e del dubbio in cinismo) è tuttavia uno dei sintomi dell’attualefragilità della democrazia, che sembra aver consegnato ad altre forze il lievito della crescita umana e civile degli individui.
Piuttosto che escogitare soluzioni retoriche ai suoi difetti, vale la pena sforzarsi di capire le cause del malessere che induce molti a cercare altrove la risposta alle esigenze che essa non riesce più a soddisfare. Un elenco sintetico comprende: a) il rinnovato affidarsi alla religione; b) l’inedito intreccio tra individualismo e solidarietà; c) la crisi del capitalismo di mercato privo di vincoli e il mutato atteggiamento rispetto alla ricchezza; d) la deriva verso il populismo. In maniera diversa dal passato, la religione svolge oggi una decisiva funzione di supplenza rispetto all’inaridirsi delle fonti di autolegittimazione della democrazia. Spostando l’accento dal dubbio alla certezza, nel fornirle un sostegno esterno, ne segnala i limiti e ne corrobora le speranze. La sua polemica nei confronti degli stili di vita che favorirebbero la dissoluzione dei legami familiari e sociali, il lassismo e il relativismo può essere letta in filigrana anche nel senso che la libertà si è talmente radicata e interiorizzata da trasformarsi in un groviglio di bisogni e desideri individuali inediti che non trovano nella politica una risposta adeguata.
In quest’ottica,vi è quindi più un difetto di libertà non ancora istituzionalizzate che non un eccesso, più un cumulo di richieste insoddisfatte che semplice licenza. Ciò vale soprattutto per le giovani generazioni, di cui si biasima l’apatia, confondendo spesso la partecipazione politica con l’impegno verso gli altri, che si incarna nell’imponente fenomeno del volontariato ( fattiva rivolta contro la povertà, la vulnerabilità e l’ingiustizia cui è esposta la maggior parte degli abitanti del pianeta), che, per definizione, implica la scelta di legare i «doveri verso se stessi» con la generosa disponibilità verso gli altri.
Stiamo dunque "soffrendo" di una crisi di allocazione della libertà o (in maniera complementare) dell’incompetenza dei singolia esercitare efficacemente le ampie libertà già consentite, perché le democrazie complesse scaricano su di loro una gamma di nuove scelte cui non sono abituati senza sufficientemente educarli all’autonomia?
Anche ammesso che le maggiori energie profuse nella sfera religiosa e nel volontariato siano risorse non completamente sottratte alla politica, può una parte di esse venire indirizzata nell’alveo della democrazia, in una fase storica in cui essa combatte contro lo strapotere di una ricchezza fuori controllo e le tentazioni del populismo?
Esiste, certo, uno stretto legame tra ricchezza e democrazia. Lo conferma l’analisi statistica di 171 paesi dal 1972 al 2003, che – attraverso il cosiddetto Gastil Index ”stabilisce una scala da 7 a 1 verso una maggiore espansione della libertà e dei diritti umani (tale ricerca ha anche dimostrato che l’incremento della cultura favorisce l’espansione della democrazia).
Vi sono tuttavia delle rilevanti eccezioni. La prima è rappresentata dai paesi musulmani in cui l’aumento del reddito,dovuto in genere alla rendita petrolifera, non aiuta affatto la democrazia. La seconda, aggiungo, è legata al fatto che un sistema economico troppo forte, più che consolidare, sembra minare le basi della democrazia. Del resto, essa non ha quasi mai funzionato come "disinfettante" nell’eliminare la predisposizione della ricchezza a condizionare la politica degli Stati. Lo ha scritto nel 1914 il giudice della Corte suprema americana Louis D. Brandeis, padre delle leggi sulla privacy e autore di Other People’s Money,
in cui argomenta la necessità di delimitare il potere delle banche e degli enti che gestiscono i soldi degli altri. I disastri finanziari dello scorso anno, dovuti alla voluta rinuncia a un’efficace sorveglianza politica, hanno incrinato l’illusione dei facili guadagni, ma hanno solo leggermente scalfito il fascino esercitato dalla ricchezza sui ceti meno privilegiati, che pensano, generalmente, più secondo il motto «a ciascuno secondo i suoi desideri» che non «a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Tale atteggiamento pare in alcuni casi saldarsi al populismo, inteso quale promessa di solidarietà fra le diverse classi sociali in cui ciascuno può realizzare i suoi sogni di successo. Il populismo è un concetto camaleontico, che implica talvolta la «denigrazione delle masse», ma che rinvia ormai a una concezione incui il popolo si configura quale entità indivisa e omogenea, composta da uomini ordinari guidati da un capo straordinario.
La spettacolarizzazione delle sue gesta, la selezione di personale politico dalle qualità civiche posticce e l’infantilizzazione del pubblico non solo cancellano le sullodate virtù della democrazia, ma rischiano di far regredire i cittadini a mere comparse, esibendo la natura eminentemente scenografica della vita politica. Per usare fuori contesto un’espressione di Hannah Arendt, le catene del potere non sono solo di ferro: egualmente resistenti, possono essere di seta, intessute di seduzione e di oblio delle responsabilità.
Per evitare che la democrazia diventi un involucro vuoto o appaia come una conquista scontata, occorre prendere sul serio i motivi della disaffezione nei suoi riguardi, scoprendo tuttavia al loro interno anche il simultaneo, silenzioso appello al compimento di alcune delle promesse inevase. Eventuali vie d’uscita dalle sue difficoltà devono dunque passare attraverso gli interstizi delle aspirazioni dei cittadini (come il bisogno di identità e di speranza che il populismo a suo modo soddisfa o di eguaglianza non disgiunta dal merito) e la messa in opera di contrappesi alla concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo (dovuta anche all’accresciuta necessità di decisioni rapide nel contesto della globalizzazione). Solo così si potranno contrastare la fuga dalla politica e l’attrazione del populismo.