18 maggio 2009
SOFFOCA NEL SANGUE L’UTOPIA DELLE TIGRI - A
ll’orizzonte le palme bruciate e annerite dal napalm, una striscia di sabbia e un mare grigio sporcato dai monsoni.Intorno acque senza argini e una laguna di terra rossa che sommerge i profughi sospinti da due risacche crudeli sovrapposte, l’onda lunga di vent’anni di guerra e quella devastante dello tsunami del dicembre 2004. in un panorama come questo che si è stretta la morsa dell’esercito cingalese intorno alle Tigri Tamil: incerta la sorte del loro capo, Velupillai Prabakharan, e il destino di migliaia di civili, forse scudi umani dei guerriglieri kamikaze pronti al suicidio.
L’ultimo atto della guerriglia Tamil si svolge,lontano dalle telecamere, in una sorta di Omaha Beach dello Sri Lanka, la battigia dove le truppe regolari e quelle a brandelli dei separatisti tamil hanno combattuto per decenni, metro su metro, per impadronirsi dell’Elephant Pass,la porta di Jaffna. Adesso tutto sta per finire e il presidente dello Sri Lanka, Mahinda Rajapaksa, in missione in Giordania, ha annunciato che ritornerà in patria dall’estero«come leader di una nazione che ha sconfitto il terrorismo».
in questo tropico triste e violento che si è consumato uno dei più lunghi conflitti della storia contemporanea, tra la minoranza hindu, un tempo sostenuta anche dall’India, e la maggioranza buddista cingalese: 70mila morti e centinaia di migliaia di profughi. Fu qui, nell’area controllata dalle Tigri Tamil,in un punto lontano sulla carta geografica chiamato Vettikalerni, che nel 2005 venni inviato dal giornale per verificare come erano stati spesi i 480mila euro raccolti per lo tsunami dal Sole 24 Ore: 250 rifugi temporanei, 30 case di cementoe una ventina di barche a motore per i pescatori. Ma erano state le Tigri del fronte per la Liberazione dell’Eelam Tamil (Ltte) a scegliere dove mettere le case.
Anche a Jaffna, allora già occupata dall’esercito di Colombo, era la guerriglia a dettare legge. Il loro capo Prabhakaran viaggiava persino su un fuso orario diverso, stabilendo che le attività cominciavano e finivano mezz’ora prima rispetto all’orario ufficiale. Il capo, come i suoi soldati-bambino, viveva con una capsula di cianuro al collo, dominando con il terrore un movimento fondato negli anni 70 sul modello dei Khmer rossi in Cambogia, reclutandoragazzi sempre più giovani votati al sacrificio. «La popolazione qui apre bocca soltanto per mangiare e lavarsi i denti», raccontava Yana, un avvocato tamil.
L’altra faccia di questa storia è stata la repressione dei governi cingalesi, sostenuti da un integralismo molto lontano dagli insegnamenti non violenti del Buddha, disattesi quanto quelli di Gandhi tra gli hindu. A Jaffna, in un angolo nascosto del centro, c’è una statua del Mahatma Gandhi: niente di grandioso, è minuscola, come lo era lui. Fa uno strano effetto. In questo monumento rivestito di cromo argentato, il profeta della pace, con quella testa piccola, il naso pronunciato e le orecchie a sventola, appare quasi un estraneo alla razza umana, un alieno di Spielberg. Alieno come la sua lezione sulla non violenza.