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 2009  maggio 17 Domenica calendario

SERGIO IL CANADESE E LA FIAT 124 BIANCA - A

Sergio Marchionne, riparare le auto è sempre piaciuto. Con una particolare predilezione per le Fiat. La 124 bianca, la prima macchina dei 16 anni che avrebbe conservato a lungo, dava spesso dei problemi. «Me lo ricordo bene ”dice Tonino Giallonardo, presidente della sezione di Toronto dell’Associazione nazionale carabinieri - andavo a prendere suo padre, Concezio, nella loro casa di allora, in Winter Green Avenue, e lo trovavo in garage, con la testa dentro al cofano, a sferragliare nel motore. Tutte le volte, per farlo arrabbiare, gli dicevo: ancora lì sei? Che fai? E lui mi rispondeva: mi faccio gli affari miei, tu fatti gli affari tuoi ».L’espressione è più co-lorita, ma il senso resta quello.
L’uomo in pullover, prima di risanare la Fiat e di assumere una assoluta centralità nel processo di ristrutturazione del mercato mondiale dell’auto, è stato molto cose: vicepresidente e responsabile della finanza del Lawson Group, capo operativo di Algroup, numero uno di Sgs. E, dal 1985 al 1992, ha fatto anche il segretario del circolo dei carabinieri qui a Woodbridge, nel quartiere costruito negli anni 70 dagli italiani che avevano conosciuto i primi agi. In queste due stanze al 7007 di Islington Avenue, il blu e il rosso della divisa usati per dipingere le pareti, un chinotto mai passato di moda per accompagnare una fetta di pizza con le alici e un enorme dipinto della Virgo Fidelis protettrice dell’Arma, "Sergio", come lo chiamano tutti, veniva ogni mercoledì e ogni venerdì per la partita a carte, briscola e scopone scientifico. E lo ha fatto con regolarità, finché non è andato a lavorare in Svizzera, nel 1994, in Algroup. «Il vecchio Concezio giocava bene e se le prendeva molto – ricorda Giallonardo – lui giocava bene e se la prendeva poco».
Ai suoi collaboratori più stretti in Fiat, Marchionne parla spesso della necessità di avere «something big» di cui occuparsi: qualcosa di grosso, di complesso, anche di arcigno. Qualcosa a cui dedicarsi con passione totale. Incontri gli amici di Marchionne e tutti citano tre elementi: i carabinieri, conosciuti attraverso il padre maresciallo di Chieti che una volta in pensione scelse di trasferire tutta la famiglia in Canada; la casa, con una famiglia molto unita nella gioia e nel dolore («la sorella maggiore Luciana era geniale, si occupava di letteratura italiana all’Università di Toronto, è mancata a 34 anni per un tumore», rammenta Giorgio Beghetto, tre anni in più di Marchionne); lo studio, con le notti passate sui libri fin dagli anni del Saint Michael’s College School, quando d’estate faceva il cassiere part- time alla Union Credit, in centro città: «Era rispettoso ma tutt’altro che servile, anzi, aveva una intelligenza molto critica e il desiderio di svolgere compiti che non potevamo affidare a un sedicenne», sorride Consiglio Di Nino, ex azionista dell’istituto di credito e oggi senatore al Parlamento federale di Ottawa, la faccia simpatica e dura di banchiere che si è fatto da sé. Una dedizione alla cultura e al lavoro che assume una energia definitiva alla scomparsa della sorella. «Luciana era una persona speciale, con un grande sorriso e una enorme carica vitale – racconta il filologo Salvatore Bancheri, direttore del Frank Iacobucci Centre for Italian Canadian Studies dell’Università di Toronto – : è stata mia docente di storia della critica, nel 1980 si è spenta nel giro di pochi mesi». Da allora la concentrazione di Marchionne diventa ancora più totalizzante: dopo avere ottenuto l’Mba alla University of Windsor nel 1980, nel 1983 si laurea anche in legge alla Osgoode Hall Law School della York University. Ma la traiettoria di Marchionne, con il suo mix di formazione scolastica multidisciplinare e complesso apprendistato nel mondo delle aziende, non è soltanto utile per delineare un ritratto del manager da giovane. La sua adesione all’istruzione rappresenta, per esempio, una delle vie di ascesa dei figli dell’ultima massiccia immigrazione italiana, quella degli anni Sessanta e Settanta. «Credevamo veramente alla scuola e all’università come strumento di emancipazione - dice Bancheri, siciliano di Delia, in provincia di Caltanisetta, figlio di muratore risolto il problema della sopravvivenza, uno studio matto e disperatissimo era il biglietto migliore per farcela».
Si, perché la vita della comunità italiana, che ancora oggi a Toronto conta su 800mila persone, non era facile. Una testimonianza corale è costituita dalla letteratura autoctona che la città canadese, fin dagli anni Cinquanta, ha generato. Ogni anno si contano un centinaio di libri, una decina di buona qualità. Poesie, racconti, romanzi. «In queste pagine, anche quelle di minor pregio estetico e narrativo, – nota Bancheri – c’è veramente tutto:il senso di disagio, il tema dell’ostilità degli altri, il problema dell’identità». E, così, la questione della molteplicità, complicata da decrittare, del manager nato come studente di filosofia, cresciuto commercialista e revisore dei conti, diventato adulto come avvocato e asceso al capitalismo mondiale quale risanatore di bilanci e ristrutturatore di modelli industriali in via di estinzione, alla fine si staglia con la nettezza dell’ascesa individuale sul percorso duro e accidentato, in salita e dai contorni massicciamente indefiniti, di una moltitudine di italo-canadesi. Con un particolare mix anglo-italiano. «Nessuno di noi – assicura Santo Molinaro, successore di Marchionne alla segreteria dell’associazione dei carabinieri – si sognerebbe di chiedere una raccomandazione. Conosciamo già la sua reazione. E nessuno, nemmeno in passato, l’ha fatto».Dunque,un particolaremix di cultura del merito da Paese che qui a Toronto ha una forte matrice anglosassone, stakanovismo individuale da "something big" e correttezza ultralegalitaria di derivazione Benemerita che non lascia concessioni a mollezze e a usi mediterranei.
C’è anche questo nella costruzione di una nuova élite industriale all’interno di Fiat: una cultura di impresa fondata sul risultato, teso ma raggiungibile, sulla velocità nelle decisioni, sulla cooptazione di chi sta al ritmo e sull’allontanamento di chi, invece, non regge. E la medesima coriaceità compare nella negoziazione. «Parla come un coltello – sottolinea con un’ombra di accento trevigiano Gianni Benotto, da 26 anni operaio agli stabilimenti Chrsyler di Windsor – ci ha detto cose dure, ma giuste».
E, così, la storia di Marchionne diventa una delle voci di un canto collettivo che si sarà anche svolto nella Toronto " the good", come i canadesi definiscono la città meno colpita dal crimine organizzato, ma che non è stato affatto semplice. «Lo abbiamo seguito fin dal suo arrivo in Fiat – afferma Sandra Pupatello, ministro del commercio internazionale dell’Ontario, bella donna alta e legnosa come una friuliana di sangue mitteleuropeo – e il suo successo ha impresso una valenza internazionale a un processo di integrazione e di ascesa che, all’interno del Canada, per noi di origini italiane è faticosamente già avvenuto». Lo esprime senza alcuna retorica "paisà", lei che ha studiato come "Sergio" a Windsor e che, con lui, durante l’operazione Chrysler ha avuto colloqui sugli inevitabili sacrifici per gli stabilimenti canadesi: «Lo posso dire? Siamo orgogliosi ».
Intanto, qualche nuvola nera si muove nel cielo di Toronto. E ti viene in mente come, alla passata edizione del Festival dell’economia di Trento, Sergio Marchionne abbia raccontato una cosa di sé: «Che cosa avrei fatto, se non fossi diventato un manager? Mi sarebbe piaciuto studiare fisica, per capire le traiettorie e i movimenti della pioggia. La guardavo sempre da bambino e da adolescente. Mi affascina la pioggia che cade».