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 2009  maggio 17 Domenica calendario

PER CAPIRE LA CRISI BASTA UNA BANCONOTA DA VENTI DOLLARI

Poco abituati come sono a essere mandati dietro la lavagna con le orecchie d’asino, i banchieri americani – a quanto riferisce la cronaca – stanno brontolando contro gli stress test inflitti loro dal Tesoro quale condizione per ricevere fondi di salvataggio. Stanno respingendo le restrizioni al compenso dei dirigenti. Però mangia questa minestra o salta dalla finestra. Prima di rialzare la cresta, dovrebbero riflettere sul lungo rapporto di odio e amore tra le banche e il governo americano. Non sarebbe male se guardassero il biglietto da 20 dollari. Proprio qui, nello spazio che separa "Federal" da "Reserve", irrompe la criniera di Andrew Jackson, il presidente più consapevole della propria chioma regale. Oltre a coltivarne il ciuffo quale emblema dello spirito della nuova frontiera e a trattenerne i boccoli con un laccio di pelle d’anguilla, il settimo presidente era anche il nemico giurato della carta moneta e di una banca centrale. Jackson, che rimase alla Casa Bianca dal 1829 al 1837, era un politico di tipo nuovo nella vita nazionale. Nessuno poteva prenderlo per uno dei gentiluomini con piantagioni in Virginia che avevano occupato la massima carica nei primi anni della Repubblica: era stato un combattente contro gli indiani, la croce degli inglesi e la delizia degli abitanti della frontiera. Ma a fargli salire davvero la mosca al naso era stata la Banca degli Stati Uniti, l’istituzione alla quale era stato concesso il monopolio di stampare denaro. Il «Mostro vuole uccidermi- dichiarò all’apice dello scontro senza quartiere con il suo presidente Nicholas Biddle- ma lo ucciderò io». E Jackson distrusse la Banca degli Stati Uniti. Mise il veto al rinnovo della sua licenza, deciso dal Senato nel 1832, e si ricandidò alla presidenza nella veste di campione del Popolo contro il Mostro.
Il risultato, la fine della regolazione mone-taria, era prevedibile: una speculazione sbagliata. Nel marzo 1837, due mesi dopo che Jackson aveva lasciato la carica, era iniziato il secondo disastro finanziario americano (il primo era avvenuto nel 1819). Ne seguì un altro nel 1839, sotto il governo di Martin Van Buren, il successore che Jackson si era scelto. Alla vigilia della guerra civile, il suo desiderio di un decentramento monetario si era realizzato al di là di ogni sua speranza. Nella repubblica circolavano settemila monete diverse, e la contraffazione era epidemica. Ci volle la legge sulla banca di Lincoln, nel 1862, nata dal disperato bisogno di credito sicuro per fare la guerra, per riportare un minimo di ordine nell’anarchia monetaria che Biddle a suo tempo aveva profetizzato.
Come ci ricorda la recente biografia di John Meacham, scritta con eleganza e fin troppo generosa, nella politica americana Jackson era una figura eccezionale sotto molti aspetti: provava un entusiasmo ripugnante per la pulizia etnica dei nativi americani; ignorava i pareri della Corte suprema che gli erano sgraditi, ed era certo di incarnare in versione eroica la democrazia popolare in atto. Corrazzato di egocentrismo, poteva liquidare con un affronto al popolo americano un voto di censura del Congresso (provocato dal suo tentativo di dissanguare la Banca dirottando i depositi del Tesoro alle banche dei singoli Stati). Oltretutto, a rinsaldarne la convinzione che istituzioni simili fossero maledettamente anti-americane, i fautori di una banca centrale – da Alexander Hamilton che creò la prima nel 1791 al nemico Biddle- ammiravano la Banca d’Inghilterra.Nonè detto che la sua bancofobia gli sia valsa la rielezione nel 1832, ma è indubbio, con la diffidenza verso la cartamoneta e il sospetto quasi paranoico verso la banca detentrice del monopolio della sua emissione, Jackson sfruttava un’insicurezza diffusa tra gli americani quanto al carattere morale del denaro.
Nell’Ottocento e nel Novecento gli europei e altri stranieri si sono talmente abituati a considerare gli americani alla mercé dell’Onnipotente dollaro da trascurare qualche volta quella vena di schizofrenia nazionale in materia di ricchezza pecuniaria. Per generazioni e generazioni, predicatori,giornalisti e politici della frontiera hanno denunciato con fervore il veleno della cupidigia e le cittadelle della costa orientale governate da Big Money. Da quando attorno al 1790 Thomas Jefferson, il cantore della vita agreste (finché a faticare erano gli schiavi), cercò di convincere George Washington che il piano di Alexander Hamilton per una banca centrale metteva in pericolo le libertà americane, il sospetto verso le banche, centrali in particolare, è stato un detonatore di rado disinnescato.
Per i direttori di Bank of America e di Citibank, fortuna vuole che Barack Obama sia meno allergico di Jackson a ciò che "Old Hickory" (vecchia quercia, il soprannome di Jackson) chiamava con disprezzo "l’aristocrazia del denaro". D’altronde, a quanto ne so, Obama non è rimasto scottato da transazioni cartacee come Jackson. Sul finire del Settecento, per un giovanotto ambizioso della frontiera le vie del successo passavano dalla speculazione fondiaria, dal diritto o dall’esercito,e Jackson le aveva percorse tutte e tre. Nel 1795, aveva trascorso tre settimane a Philadelphia cercando di vendere una proprietà di migliaia di ettari sulla frontiera. Finalmente trovò un acquirente che lo pagò con una cambiale che Jackson usò per comprare rifornimenti ai carri. Poco tempo dopo, i fornitori di queste merci lo informarono che gli toccava saldare lui il conto perché il suo cliente aveva fatto bancarotta. Il debito depresse le prospettive economiche di Jackson a lungo e gli lasciò una diffidenza duratura contro gli strumenti cartacei di scambio.
Come Jefferson, che per quasi ogni altro aspetto aveva una mente più raffinata, Jackson giunse a ritenere la cartamoneta al meglio l’inaffidabile creatura di un capriccio finanziario (chi ci faceva affidamento non sapeva mai quanto ne avrebbero potuto scontare) e al peggio lo strumento prediletto di una cospirazione per rendere schiavi attraverso il debito. Le monete d’argento avevano circolato nel paese prima e dopo l’indipendenza,e per le transazioni,un populista altrettanto sincero di come lo descriveva la sua pubblicità elettorale, preferiva qualcosa che si potesse mordere. Perciò da presidente Jackson ingannò volutamente il paese sui mali della Banca monopolistica degli Stati Uniti,proclamò che non era soltanto un’interposizione anticostituzionale tra il governo eletto e il popolo, ma anche che era venuta meno alla sua responsabilità di creare una cartamoneta fidata in tutta la repubblica.
Date le condizioni instabili dell’America attorno al 1830, la carta stampata dalla Banca degli Stati Uniti era di gran lunga il mezzo di transazione più affidabile dal Maine alla Louisiana. Ma Jackson era convinto che la Banca doveva morire, altrimenti la democrazia americana sarebbe sempre stata infettata dalle sue macchinazioni. Era in corso una lotta tra valori rurali e urbani,e in palio c’era l’anima economica del paese. Per certi versi era uno scontro altrettanto portentoso di quello tra il Sud schiavista e il Nord libero, perché andava al cuore di quello che l’America doveva essere:un luogo di piccole comunità rette dalla semplicità e dalla trasparenza, o una macchina autonoma di crescita economica e di potere illimitato: Field of Dreams o Citizen Kane?
Jefferson, di cui Jackson affermava di essere un apostolo, aveva indicato la linea: nella genuinità del paese risiedevano le forme più pure della virtù sociale. «Coloro che lavorano la terra sono i prescelti da Dio», aveva dichiarato in una delle sue fulminanti escursioni nella pietas. Le città d’altro canto erano paludi "pestilenziali" di seducente lusso. Ma Jackson superò il suo maestro. Non era così ingenuo da immaginare che l’indebitamento accumulato in due guerre americane contro gli inglesi sarebbe scomparso da sé e capiva, a modo suo, la necessità di una banca centrale per gestire i titoli senza i quali il governo non sarebbe stato in grado di operare (un quarto del debito nazionale era in mani straniere). Ma per sovrintendere a tali operazioni credeva anche che il Tesoro, sotto il controllo di designati eletti,fosse l’ente più democratico. Così fece della liquidazione della Banca degli Stati Uniti un perno della propria presidenza.
Distruggendo la Banca, Jackson sperava di liberare la repubblica di quello che, insistevaa dire, era la grande truffa della cartamoneta. Nel discorso di commiato, parlò con eloquenza della necessità di preservare l’Unione contro il separatismo Nord-Sud che la minacciava, ma parlò con accalorata passione del "sistema della cartamoneta". Con riferimento allo scontro con Biddle, disse al popolo americano di «eventi recenti» i quali «hanno dimostrato che il sistema della carta moneta poteva essere usato come un motore per minare le vostre libere istituzioni... Coloro che desiderano governare con la corruzione o con la forza sono consapevoli del suo potere e pronti a usarlo».
La carta incoraggiava la speculazione; la speculazione rendeva i cittadini schiavi dei monopolisti della banca e a soffrirne erano le «ossa e i muscoli» del paese, «uomini che amano la libertà e non desiderano altro che uguali diritti e uguali leggi», «le classi agricole, meccaniche e lavoratrici della società ». La stretta della banca centrale che poteva rendere «il denaro abbondante o scarso a suo piacimento» era una deriva dispotica per la quale le libertà americane valevano meno della carta su cui il denaro stesso erano stampato.
La Banca degli Stati Uniti era morta, ma guai agli Stati Uniti se mai ne fosse rinato un successore, un agente attraverso cui gli "interessi monetari" avrebbero potuto tirannizzare l’onesta maggioranza! La nascita del successore – la Federal Reserve alla cui buona fede e al cui credito oggi presta il volto Jackson – tardò fino al 1913. I poteri che secondo lui sovvertivano le libertà dei molti "onesti", vale a dire la capacità di regolare l’offerta di denaro, sono oggi ritenuti indispensabili alla nostra sopravvivenza finanziaria. La differenza è che mentre la Fed è un’istituzione pubblica, la Banca degli Stati Uniti non lo era. Tuttavia, Jackson disapproverebbe proprio la qualità più apprezzata della Fed: la sua indipendenza dal Tesoro. In una vera democrazia, pensava, la responsabilità politica e finanziaria doveva essere una. Ma la creazione della Fed alla vigilia della Prima guerra mondiale doveva parecchio alla sopravvivenza della retorica jacksoniana contro l’"interesse monetario".
Sebbene J.P. Morgan e John Rockefeller avessero agito per il bene pubblico ”avevano fornito l’occorrente per prevenire un collasso totale del sistema finanziario nel 1907; Morgan rimettendoci 21 milioni di dollari – le delibere a porte chiuse destavano preoccupazioni e permaneva il sospetto che la crisi fosse stata architettata perché i magnati potessero impossessarsi della Tennessee Coal and Iron Company a prezzi di saldo. Paradossalmente,l’oro che Jackson riteneva la difesa dell’uomo comune contro la frode plutocratica era ora il bersaglio dell’ira populista. Di nuovo, la contesa era tra la campagna e la città, la fattoria e la banca. All’epoca l’America Uniti era ancora un importatore netto di capitali, e da come la vedeva J.P. Morgan, sarebbe cresciuta e avrebbe prosperato soltanto finché avesse attratto investimenti stranieri, inglesi soprattutto.
In quanto debitore, il governo dipendeva dalla credibilità del suo mercato di obbligazioni. Soltanto un dollaro agganciato all’oro, Wall Street, e una politica monetaria severa potevano garantire questi fondi, la linfa vitale per la nascente crescita commerciale e industriale dell’America. Qual era l’alternativa? Una moneta svilita dalla rimonetarizzazione dell’argento o, dio non volesse, dell’indomito biglietto verde, avrebbe alimentato l’inflazione e svalutato la resa degli investimenti. Scoraggiare i Rothschild, i Barings e i Grenfell sarebbe stato catastrofico. Ma non era vero per l’America profonda. La sovrapproduzione aveva fatto calare il prezzo dei raccolti, e folle di coloni furono ridotte in miseria. Dalla loro disperazione, dall’Ovest, sorsero una visione e una voce. La visione era di una moneta bimetallica; dollari d’argento che aumentavano l’offerta senza correre il rischio di una moneta destabilizzata dalla carta.Depositi d’argento erano stati scoperti nel Nevada e nel Colorado, nelle terre stesse del Signore, e non aspettavano altro che essere coniati.
La situazione era aggravata dal fatto che soltanto un anno prima, nel 1895, Morgan aveva risolto un improvviso calo delle riserveauree negoziando un accordo con un sindacato di fornitori quasi tutti stranieri e intascando una lauta commissione. Contro il candidato repubblicano alla presidenza William McKinley si schierò il peggior incubo: William Jennings Bryan, ammiratore appassionato di Andrew Jackson, avvocato in una cittadina del Nebraska, predicatore laico, e già eletto al Congresso. Per chi l’aveva sentito nel circuito evangelico o al Congresso, era l’oratore più strabiliante che avessero mai incontrato. E Bryan era un democratico. Prima che trasformasse il partito, era un’organizzazione di perdenti. Dai tempi della guerra civile uno solo dei suoi membri, Grover Cleveland, era arrivato alla Casa Bianca ed era un fanatico dell’oro. Ma alla convenzione di Chicago nel luglio 1896, Bryan – anche se poi avrebbe perso le elezioni – rivoluzionò il partito, ne fece quello che avrebbe incarnato la causa dell’Uomo comune nei tempi bui, quello di Franklin Roosevelt, Lyndon Johnson e Barack Obama.
Andate su YouTube e sentirete Bryan pronunciare – o forse recitare – il discorso che fece quattro anni prima della morte nel 1925, ritenuto da molti il più grande della storia americana. Per quanto la registrazione sia ottima e melodiosa, non può sperare di riprodurre l’elettrizzante oratoria di Chicago. Bryan era stato preceduto da un demagogo ringhioso e razzista della Carolina del Sud, e da un apologo triste dell’oro. La platea era depressa. Saltò sul palco Bryan, in un completo d’alpaca dai pantaloni sformati. «Vengo a parlarvi in difesa di una causa sacra quanto la libertà, quella dell’umanità » (Lyndon Johnson ne ha quasi plagiato le parole per introdurre la legge sul diritto di voto nel 1965). Lo standard aureo era la macina che una parte dell’America aveva appeso al collo dell’altra. I suoi campioni, i repubblicani, si proclamavano il partito degli affari. Ma «l’uomo assunto in cambio di un salario è in affari quanto il suo datore di lavoro; il legale in una borgata di campagna quanto il consulente di una corporazione, il commerciante della bottega all’incrocio, quanto il mercante di New York... i minatori che scendono trecento metri sotto terra o salgono seicento metri su una scarpata e riportano dai loro nascondigli i metalli preziosi da riversare nei canali del commercio, sono uomini d’affari quanto i... magnati che nella stanza sul retro rastrellano il denaro del mondo».
Era un’opera d’arte americana, quel discorso sorto dalla sua terra scura come un verso di Whitman o la spietata ribalderia di Mark Twain. Era paesaggio, dramma sociale e religione, il tutto versato nello stampo rovente dell’orgoglio patriottico. La folla in ascolto vedeva i campi di granoturco e i pascoli delle praterie, nelle fluenti cadenze di Bryan; allora egli la sollevò sopra un continente di dolore sociale. Era l’oro, la sostanza dei Mida di Wall Street, a infliggere quelle sofferenze. Che ne sapevano, quelli che l’accumulavano, dell’America vera del sudore e della preghiera? Con quella celebre perorazione Bryan aveva dato al partito democratico, vittorioso o perdente che fosse, il suo nuovo vangelo. Quanto ai Mida, «risponderemo alla loro domanda di uno standard aureo dicendo loro " non calerete sulla fronte del lavoro questa corona di spine, non inchioderete l’umanità su una croce d’oro"». Senza pudore, portato dalla verità del Vangelo, Bryan si fermò, fece alcuni passi indietro e a braccia spalancate si mise nella posizione del Salvatore martirizzato. E il clamore scoppiò attorno a lui.
Non va scordato che alla Casa Bianca abbiamo un altro presidente seriamente cristiano che, nonostante i temi pacati, si carica di passione retorica per parlare alla gente comune. Certo, ha vinto New York. Ma ha vinto anche l’Indiana. E diversamente da Jackson, e diversamente da Bryan, Obama non ha mai voluto fare la guerra agli interessi monetari. Le sue inclinazioni a prendersela con Wall Street sono molto meno combattive di quelle di Franklin Roosevelt. Obama è trans-razziale, trans-sezionale, trans-ideologico. Crede in un grande abbraccio nazionale. Nei tempi duri che ci attendono di sicuro, a dispetto delle gemmule finanziarie di primavera, se riuscirà a essere riformista; se come desidera da lui la storia americana, riuscirà a rendere di nuovo il denaro morale, resta - come sapete già che avrei detto - tutto da vedere.