Note: [1] ma. fo., il manifesto 13/5; [2] Valeria Fraschetti, La Stampa 14/5; [3] repubblica.it 16/5; [4] Federico Rampini, la Repubblica 14/5; [5] Marina Forti, il manifesto 8/5; [6] Valeria Fraschetti, Il Riformista 5/5; [7] Ma. Fo., il manifesto 14/4; , 16 maggio 2009
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 18 MAGGIO 2009
Si è conclusa sabato con l’ufficializzazione dei risultati la maratona elettorale indiana: voto suddiviso in cinque scaglioni (il primo gruppo di stati ha votato il 16 aprile), 714 milioni di aventi diritto al voto hanno eletto 543 deputati in altrettanti collegi sparsi in 28 stati e territori di questa nazione di 1,1 miliardi di abitanti. [1] Valeria Fraschetti: «Un rito democratico senza precedenti al mondo per la sua imponenza (nel 2004 gli elettori erano 41 milioni in meno)». [2] Le urne hanno decretato la vittoria del partito del Congresso guidato da Sonia Gandhi e dal figlio Rahul: i seggi conquistati dovrebbero garantire alle forze progressiste una maggioranza sufficiente a governare (necessario però l’appoggio di alcuni partiti regionali). [3]
Nel commentare i risultati, B K Hariprasad, segretario generale del partito del Congresso, ha detto che è stata fondamentale la figura del giovane Gandhi. Il 76enne premier Manmohan Singh ha promesso che cercherà di persuaderlo a far parte del nuovo governo (la cui formazione dovrebbe avvenire entro il 2 giugno). [3] Rahul Gandhi, 39 anni il prossimo 19 giugno (un bambino per la gerontocrazia politica indiana) è una specie di giovane Kennedy o Bush all’ennesima potenza. Federico Rampini: « il rampollo della dinastia repubblicana più longeva del mondo, che da quattro generazioni domina l’India». Il sociologo Dipankar Gupta: « una stirpe che considera il partito di governo alla stregua di un suo latifondo familare». [4] Marina Forti: «Laureato all’università di Cambridge, entrato in politica formalmente nel 2004 quando è stato eletto deputato al Lok Sabha (la camera bassa del parlamento), è accreditato come la persona che sta cercando di rinnovare il partito del Congresso. Anzi, ”democratizzare”». [5]
Nonostante l’India sia la superpotenza più giovane del pianeta (il 70% della sua popolazione ha meno di 40 anni), solo un decimo dei deputati della scorsa legislatura aveva meno di 40 anni. Secondo Rahul non si tratta solo di un problema d’età. «Bisogna cambiare il modo di fare politica e di selezionare i quadri: che emergano dalla base. Basta con il sistema che per entrare in politica devi essere figlio o figlia di qualcuno». Rampini: «La politica indiana è ricca di queste ironie. Il rampollo che impugna la bandiera del ”rinnovamento” è bisnipote di Nehru (leader dell’indipendenza, premier dal 1947), nipote di Indira Gandhi che governò negli anni Sessanta e Settanta, figlio del premier Rajiv Gandhi». [4] Rahul: «Potrei dire che non c’entro con mio padre e mia nonna, ma non è così. Invece, voglio un sistema in cui non conti chi sia tuo padre per poter avere voce e cambiare il paese: è paradossale ma io ho il privilegio di poter lavorare a un cambiamento simile». [5]
Sonia Gandhi (nata Maino a Orbassano, in provincia di Torino, nel 1947) vedova di Rajiv, per anni ha tentato di tenere il figlio lontano dalla politica. Rampini: «Sia Indira che Rajiv morirono vittime di attentati terroristici, nel 1984 e nel 1991. Ma il senso del destino e della missione dinastica è stato più forte. La stessa Sonia è diventata presidente del Congresso, leader indiscussa di un partito che d’istinto cerca in questa famiglia i suoi padroni. Per il principino è iniziato il lungo addestramento alla successione». [4] Nel successo del partito del Congresso, non va sottovalutato il ruolo della sorella Priyanka (37 anni), vista da parecchi osservatori come l’autentica erede di sua nonna. Fraschetti: « emersa come la nuova eroina di queste elezioni, senza esservi candidata. Ha conquistato le folle con la sua affabilità, cercando di apparire come una di loro ai braccianti che la accoglievano come una dea». [6]
Priyanka continua a ripetere di voler restare fuori dal parlamento indiano. Fraschetti: «Il suo impegno nella campagna elettorale di quest’anno lo ha definito un semplice ”aiuto” chiesto dai familiari, impegnati a percorrere in lungo e largo il Subcontinente per cercare di ottenere la vittoria del Congresso per un secondo turno consecutivo». [6] Sebbene i mass media gli preferissero la sorella, più astuta e con un carisma che ricorda la nonna, il Congresso si è messo disciplinatamente al servizio di Rahul, iniziando la ”costruzione” della sua popolarità. [4] Rahul, che ha avuto in eredità un partito in crisi profonda (di ragion d’essere ancor prima che di voti), durante la campagna elettorale ha difeso la scelta della madre di non fare il primo ministro per confermare Singh, «un leader dinamico che ha fatto molto per il paese». [7]
Un noto magazine di New Delhi ha definito Singh «l’uomo delle svolte». Economista con studi a Oxford, sarà ricordato per aver dato dal 1991 al 1996 una svolta all’economia del paese: ministro delle finanze di un governo del Congresso, avviò la prima liberalizzazione portando l’economia a una crescita del 7% per tre anni consecutivi. Nel 2004 tornò al potere in modo inaspettato per formare un governo di coalizione, la United Progressive Alliance (Sonia Gandhi giudicò che fosse più opportuno non assumere lei la carica di primo ministro). In questi anni l’India ha trovato un suo posto nell’economia globale fatto di outsourcing tecnologico e di cittadelle elettroniche (crescita del 9% annuo tra il 2006 e oggi). [7]
Oltre allo sviluppo economico, con il trattato di cooperazione nucleare siglato tra India e Stati Uniti Singh ha garantito al suo Paese il riconoscimento internazionale del suo status di potenza nucleare. Il trattato ha però suscitato polemiche e spinto il partito comunista a uscire dalla coalizione di governo, l’anno scorso, motivando il dissenso con almeno due argomenti. Forti: «Uno era che quel trattato mette l’India definitivamente nel campo degli alleati americani, con buona pace della sua tradizione di non allineamento; l’altro è che la costringe a cedere parte della sua sovranità su una questione strategica, perché ha accettato di sottoporre parte dei suoi impianti nucleari ai controlli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Fatto sta che nell’ottobre 2008 il trattato è stato ratificato dal Congresso Usa (ancora con l’amministrazione Bush), dal Gruppo dei 45 paesi che controlla il trasferimento di tecnologia nucleare (Nuclear Suppliers Group) e dall’Aiea. Un successo della politica estera indiana e un lustro per la nazione». [7]
Il bilancio dei 5 anni di governo dell’Alleanza progressista è misto. Forti: «Le diseguaglianze sono cresciute negli ultimi quindici anni di liberalizzazione, quale che fosse il governo in carica, e i discorsi del premier Singh sulla ”globalizzazione inclusiva” suonano vaghi: ma è un fatto che il suo governo ha aumentato la spesa sociale, in particolare per la sanità e per l’istruzione (un punto debole strutturale dell’India, che ha alcune università di alto livello ma un sistema scolastico elementare deficitario). Ha avviato un programma di reddito minimo garantito nelle campagne, o meglio: ”impiego rurale garantito”, con una legge (National Rural Employment Guarantee Act) che obbliga le amministrazioni a garantire a ogni capofamiglia almeno 100 giorni di lavoro retribuito all’anno. Il programma ha funzionato più o meno bene a seconda degli stati, ma ha funzionato». [7]
Con l’economia che nell’anno fiscale 2009 ha visto una crescita del 6,5%, invidiabile per noi ma in calo dal precedente 9% (e al minimo dal 2003), alla vigilia del voto alcuni super-capitalisti avevano manifestato il loro plateale appoggio per Narendra Modi, uno dei protagonisti più controversi della scena politica indiana. Cecilia Zecchinelli: «Astro in ascesa del Bjp (Bharatya Janata Party), è primo ministro del Gujarat dal 2001, quando iniziò a trasformare il povero Stato desertico appena sconvolto dal terremoto in un ”paradiso per gli imprenditori” al grido di ”no red tape, yes red carpet”. Ovvero tappeti rossi, nel senso di nuove leggi favorevoli agli investitori, al posto dell’infernale burocrazia indiana, che per molti di loro è il nemico numero uno del subcontinente, peggio delle inondazioni o degli scontri tra caste e religioni». [8]
«Modi è il miglior leader dell’India, se ha governato così bene il suo Stato, immaginiamoci cosa potrebbe fare come primo ministro di tutto il Paese», aveva dichiarato a una convention di 20 mila investitori e imprenditori Anil Ambani, terzo per ricchezza e potere in India. «Abbiamo bisogno di un amministratore delegato a capo del governo. E chi meglio di Modi?», aveva aggiunto Sunil Mittal, quarto nelle classifiche. Queste dichiarazioni hanno fatto scalpore. Zecchinelli: «Modi è ritenuto quasi all’unanimità in India e all’estero (gli Usa gli hanno più volte rifiutato un visto) responsabile dei massacri di musulmani del 2002, con oltre 1000 morti». Il Congresso lo ha attaccato duramente: «Nel 1933, i capitalisti del l’industria tedesca erano affascinati da Hitler. Qui sta accadendo lo stesso». [8] Probabilmente alla fine gli è stata fatale una decisione della Corte Suprema, che all’inizio del mese ha ordinato una nuova indagine sulle sue presunte responsabilità nella strage allontanando i moderati dal Bjp. [9]
L’altra grande sconfitta di queste elezioni è «la vendicatrice degli oppressi» Mayawati Kumari, «una Obama indiana». Forti: «Figlia di una modestissima famiglia dalit (i fuoricasta, una volta chiamati ”intoccabili”), oggi è la chief minister (capo del governo) dell’Uttar Pradesh, uno stato di 190 milioni di abitanti che manda ben 80 deputati al Lok Sabha, camera bassa del parlamento nazionale: non foss’altro che per i numeri, uno stato decisivo nelle sorti politiche dell’India». [10] Rampini: «La Mayawati è un personaggio molto ambiguo. ”Affascinante e ripugnante”, la definisce Gupta. La carriera politica le ha consentito di accumulare un patrimonio personale di 12 milioni di dollari e 72 case, più una collezione di diamanti che sfoggia senza imbarazzo nelle cerimonie ufficiali. Al suo partito si attribuiscono metodi mafiosii». A capo del Bahujan Samajwadi (Bsp), sperava di poter essere l’ago della bilancia, ma per questa volta pare essergli andata male. [4]
Alla fine, di programmi in queste elezioni si è discusso poco o niente. Rampini: «La recessione globale spinge a una generica rivalutazione delle politiche economiche dell’epoca Nehru-Gandhi. Protezionismo, dirigismo, statalismo non erano mai veramente passati di moda in India; ora godono un revival legato alla crisi del modello americano. Nessuno si illude che da queste elezioni venga una svolta. M.J. Akbar, celebre opinionista musulmano, dice che ”le aspirazioni dei poveri crescono così velocemente che nessuna politica e nessun governo possono soddisfarle”. Anche Harish Kare, che dirige il quotidiano The Hindu, ha una visione disincantata di quel che la politica può fare: ”La vera funzione del voto per noi è la catarsi. il momento in cui la democrazia ci unisce davvero perché rappresenta tutte le nostre diversità. La politica delle identità in India è molto più importante dell’arte di governare”». [4]