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 2009  maggio 16 Sabato calendario

Spiati 72 anni. Per scoprire la felicità - Ricerca di Harvard, il Grant Study è il lavoro più lungo mai realizzato sui comportamenti di un gruppo di persone - Qual è il segreto del­la felicità? possibile, a 20 anni, pro­fetizzare chi è destinato ad una vita lunga, sana e appagante e chi invece morirà presto dopo un’esistenza tor­mentata? Da 72 anni la prestigiosa università di Harvard cerca di rispon­dere a queste complesse domande at­traverso il Grant Study, il più lungo studio del genere mai realizzato fino ad oggi, proprio allo scopo di chiari­re i misteri dietro l’anelito che agita l’umanità, sin dagli albori della sto­ria

Spiati 72 anni. Per scoprire la felicità - Ricerca di Harvard, il Grant Study è il lavoro più lungo mai realizzato sui comportamenti di un gruppo di persone - Qual è il segreto del­la felicità? possibile, a 20 anni, pro­fetizzare chi è destinato ad una vita lunga, sana e appagante e chi invece morirà presto dopo un’esistenza tor­mentata? Da 72 anni la prestigiosa università di Harvard cerca di rispon­dere a queste complesse domande at­traverso il Grant Study, il più lungo studio del genere mai realizzato fino ad oggi, proprio allo scopo di chiari­re i misteri dietro l’anelito che agita l’umanità, sin dagli albori della sto­ria. E la risposta che offrono i ricercato­ri è molto semplice: la felicità è amo­re. Solo chi ama ed è amato non solo dal partner, ma anche da genitori, amici, fratelli, sorelle può essere feli­ce e aspirare ad una vita serena. «La ricerca medica presta troppa at­tenzione ai malati e troppo poca alla gente sana», teorizzò nel 1938 lo psi­chiatra di Harvard Arlie Bock nel da­re ufficialmente il via al Grant Study, dal nome del suo ricchissimo spon­sor, il magnate dei grandi magaz­zini W.T. Grant. Per studia­re il segreto della felicità e la sua evoluzione at­traverso le varie fasi della vita, Bock se­lezionò 268 tra gli studenti più brillanti, ambi­ziosi e privile­giati di Har­vard, impe­gnandosi a se­guirli attraver­so carriere, guerre, matri­moni, divorzi, ni­poti e malattie, fi­no alla morte. Harvard a quei tem­pi era una enclave per so­li maschi ricchi – l’elite Wasp del New England – e tra i soggetti studiati quattro diventarono senatori, uno ministro, la maggior parte capitani d’industria. Ci fu an­che un presidente, John Kennedy (ma il suo dossier non potrà essere aperto prima del 2040), un grande giornalista – Ben Bradlee, direttore del Washington Post durante lo scan­dalo Watergate – e uno scrittore fa­moso, forse Norman Mailer. Ma i nomi – protetti dalla privacy – della maggior parte resteranno per sempre un mistero. Persino Jo­shua Wolf Shenk, il primo giornalista a visionare gli archivi del Grant Stu­dy, è stato costretto nel lungo saggio pubblicato sulla rivista americana The Atlantic a tacere la loro identità. Ma alla fine Shenk condivide i risulta­ti complessi e spesso contraddittori di George Vaillant, il 74enne psichia­tra di Harvard che trent’anni fa assun­se le redini dello studio, quando mol­ti dei suoi promettenti giovani erano già finiti sulla cattiva strada. Ironicamente un’indagine paralle­la condotta da Harvard dal 1940 su un campione di 456 proletari dei ghetti di Boston – il Glueck Study – giunge a risultati pressoché identi­ci. Compiuti i 50 anni, oltre un terzo del privilegiato campione tradiva sin­tomi di malattia mentale, alcolismo e dipendenza ai farmaci. Un numero sproporzionato morì prematuramen­te, spesso suicidandosi. Arlie Bock era sconcertato: «Quando li avevo scelti erano normalissimi», rivela a Vaillant in uno dei documenti recupe­rati da Shenk. Eppure la metodologia seguita dal­lo studio era rigorosa. Grazie a generose donazioni fede­rali e private per pagare le costose ri­cerche, ogni due anni Vaillant chiede­va ai partecipanti di compilare un questionario con domande relative alla loro salute fisica e mentale, la qualità del loro matrimonio, figli, car­riera, malattie e pensione. Ogni cin­que li sottoponeva a check-up, facen­dosi consegnare le cartelle cliniche dai loro medici. E ogni quindici anni i soggetti dovevano rilasciare appro­fondite interviste, rispondendo a do­mande di natura personale su ogni aspetto della loro vita pratica ed emo­tiva. La preoccupazione centrale di Vail­lant? «Studiare non tanto le proble­matiche dei soggetti, ma piuttosto il modo in cui essi reagivano a tali pro­blematiche – spiega Shenk – La sua lente interpretativa passava attra­verso la metafora psicanalitica di adattamento o risposta inconscia al dolore, ai conflitti, e all’incertezza». Lo studente che all’inizio gli era ap­parso più dotato e promettente di tut­ti è il primo a fare una brutta fine. Do­po un’infanzia da sogno in una gran­de casa con undici stanze e tre bagni, l’uomo – figlio di un ricco dottore e di un’artista ed ereditiera - si sposò e fece carriera all’estero. «Ma poi co­minciasti a fumare e a bere – annota diligentemente Vaillant nel suo taccu­ino ”. A 35 anni sei sparito, smetten­do di rispondere ai nostri questiona­ri. Più tardi ci hanno informati che eri morto all’improvviso». Un altro uomo, considerato il clown del gruppo per la sua persona­lità effervescente ed estroversa, ha fi­nito per sposarsi tre volte e ha fatto tre figli ed innumerevoli mestieri di­versi prima di accettare la propria omosessualità, diventando un leader di spicco nel movimento per i diritti dei gay. Ma ormai era troppo tardi e morì a 64 anni, alcolizzato, cadendo dalle scale ubriaco fradicio. Ma il soggetto più intrigante di tut­ti, secondo Shenk, è lo stesso Vail­lant, il geniale ed eccentrico scienzia­to di Harvard (talvolta si presentava in ufficio in pantofole) considerato l’anima dietro un progetto che, in as­senza di registrazioni, si avvale esclu­sivamente delle sue note e personalis­sime interpretazioni. Nato da una del­le famiglie più antiche e aristocrati­che del New England, Vaillant restò orfano a 10 anni quando il padre, un uomo di successo e all’apparenza feli­ce, si sparò un colpo alla tempia ai bordi della piscina. «Sua madre gettò una coltre di silenzio sull’accaduto – rivela Shenk – non vi fu servizio funebre e non rimisero mai più piede in quella villa». Dopo ben tre divorzi, lo psichiatra è tornato con la seconda moglie anche se i suoi figli descrivo­no la vita col padre come «una guer­ra civile» e rivelano di aver passato anni senza rivolgergli la parola. «I suoi amici più cari affermano che non sa gestire i suoi rapporti affettivi e la sua intimità», dice Shenk. Anche per questo le conclusioni cui giunge sono emblematiche: «L’amicizia, l’amore e le buone rela­zioni con fratelli, sorelle e genitori, sono la vera chiave della felicità – di­chiara Vaillant – la felicità è amore. Punto e basta». Shenk è meno perentorio: «Lo stu­dio è iniziato proponendosi di analiz­zare le vite di quegli individui sotto la lente di un microscopio – scrive sull’Atlantic – Ma alla fine quelle vi­te erano troppo grandi, troppo stra­ne e troppo ricche di sfumature e con­traddizioni per essere etichettate».