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 2009  maggio 15 Venerdì calendario

IL DESTINO DI PANSA: VIVERE DA REVISIONISTA


Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il re­visionista, in uscita da Rizzoli mercoledì (pagine 474, e 21). Questo non è l’ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. l’autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Re­sistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l’amore per la cultura: «I miei sapevano che l’unica possibile emancipazio­ne era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più com­moventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi saluta­no ».

Come fa un libro che contiene queste storie pri­vate a non essere definito un’autobiografia? Eppu­re Giampaolo Pansa nella prefazione dice d’esser­si limitato a tracciare il suo percorso di Revisioni­sta.

Successi, ma anche attacchi e insulti, a co­minciare da quando nel 2002 pubblicò I figli del­l’Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l’ho scritto – confida Pansa – è ringraziare le perso­ne che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L’Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipa­re al discorso pubblico. A loro ho voluto racconta­re il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornali­sti che non appartengono alla sua cerchia, io cre­do di essere quello che meglio capisce Silvio Ber­lusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le ango­sce di un settantenne, ma ne condivido anche l’entusiasmo e il percorso generazionale».

Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzati­na di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l’amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell’umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale pro­fessore alla facoltà di Scienze politiche, Alessan­dro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testi­monianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ri­cerca... sempre presente il principio dell’audia­tur et altera pars ». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l’altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva.

Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoro­so direttore del quotidiano torinese, a «barbapa­pà » Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è an­che una galleria di direttori e colleghi, ritratti im­pietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai ve­lo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi an­ni l’arcinemico di Pansa in difesa di una Resisten­za che ha sentito tradita dal suo più giovane colle­ga: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiret­ti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con en­tusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reporta­ge italiani. Lui mi aveva ringraziato con un bigliet­to e io ero andato di corsa a Milano per conoscer­lo ».

Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiama­ta al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza del­le riunioni ogni mattina il direttore entrava rivol­gendo, tra l’ironico e il minaccioso, questa do­manda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell’ago­sto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che aveva­no combattuto dall’altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubbli­cana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell’autobiografia, sull’esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino » dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via – scrive Pansa – diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vice­direttore della ’Repubblica’, ndr) nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e ad­dolorato: attribuisce questo atteggiamento al­l’uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica».

Nel libro c’è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e so­prattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che conti­nua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino.

Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Rifor­mista » ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è feli­ce della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tut­tavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abba­stanza per difendere Calabresi come avrei dovu­to ». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l’invito da una scuola di giornalismo, dove inse­gnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole so­no in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornali­sta non si impara, ma si ruba, e che il talento ser­ve a ben poco senza l’umiltà e lo spirito di sacrifi­cio ».