Mauro Baudino, La stampa 15/5/2009, 15 maggio 2009
MIO PAPA’ SIMENON IL LATO B DI BARBABLU’
Maigret è stato un trampolino, per poter scrivere in libertà gli altri romanzi, quelli a cui teneva veramente. Esaurita la sua funzione, sarebbe stato giusto liberarsene, ma il grande scrittore non ci riuscì. «Spinto più che altro dalle circostanze», racconta il figlio John, che di questa lunga avventura è stato testimone diretto. Alla fine, su 450 tra romanzi e scritti brevi, che da anni Adelphi sta pubblicando in traduzione, quelli che riguardano il commissario sono 103. Ma non ci fu un rapporto né sentimentale né conflittuale tra l’autore e la sua creatura: anzi, «Maigret lo rilassava, scrivere i gialli era una forma di ricreazione», anche se «era certamente frustrato d’essere conosciuto, o meglio apprezzato, più per il commissario che per gli altri personaggi e gli altri libri». I rapporti coi figli, letterari e non, sono sempre una partita complicata da giocare. Ma anche quelli coi padri.
John Simenon, che sarà oggi in Fiera, a vent’anni dalla morte del grande autore belga, ne è il testimone diretto. il secondogenito dello scrittore, che si era sposato due volte. Dal primo matrimonio, con Régine Rechon, era nato Marc - scomparso nel 2001. Dal secondo, dopo John, sono nati Marie-Jo, suicida nel ”78, e Pierre. La famiglia è stata segnata da eventi dolorosi, e dalla debordante personalità del padre. «Fin da ragazzo ho capito di vivere in una casa senza porte e finestre, ma con la possibilità di essere visto dall’esterno» ha scritto una volta John Simenon in un breve ricordo. Una vita in pubblico, o forse una vita spiata. Con la conseguente «leggenda nera» che si è creata intorno allo scrittore, considerato un uomo arido, ambizioso, insensibile, con la sua insaziabile avidità sessuale e le infinite donne divorate a una a una.
Una fama immeritata?
«Chi non lo ha conosciuto personalmente non si rende conto fino a che punto fosse accessibile e aperto. Ha certamente sofferto molto, per ragioni famigliari. La sua vita è stata segnata dal dolore, da tragedie come il suicidio di mia sorella. La sofferenza fa parte della sua opera anche se pochi l’hanno capito. I lettori italiani più di altri. Ma d’altra parte era capace di essere felice, di apprezzare l’esistenza. Le angosce erano certo profonde; cercava di liberarsene con la scrittura».
Maigret faceva parte di queste angosce?
«Non credo. Come le ho detto, i gialli del commissario sono stati un trampolino necessario per poter scrivere altre cose, per poter scrivere i suoi "libri duri". Tant’è vero che da un certo momento in poi ha lo ha dolcemente abolito. O almeno ci ha provato. Quando ha cominciato a scrivere gli altri romanzi, non aveva alcuna intenzione di tornare al commissario. L’ultimo della serie edita da Fayard, era il 1934, si intitolava semplicemente Maigret, e non era destinato ad avere seguito. Poi è arrivata la guerra, durante la quale era difficile pubblicare, a causa della carenza di carta, e Georges Simenon ha ricominciato: perché quelle storie erano più adatte a giornali o edizioni contenute. Non che si sentisse oppresso. Le cose andarono diversamente, e Maigret divenne insostituibile anche come una sorta di respiro, un modo di prender fiato, di rilassarsi, mentre scriveva gli altri romanzi; ma sono convinto che se avesse potuto scegliere lo avebbe messo volentieri da parte».
vero che quando lavorava si chiudeva a chiave nel suo studio, e nessuno poteva entrare?
«Quello della scrittura era un mondo talmente segreto che non ce ne accorgevamo neppure. Non ne avevamo nozione. Si metteva alla scrivania molto presto, prima che noi ragazzi uscissimo per andare a scuola. Al ritorno aveva finito, e pranzava con noi».
Lei ha scritto che poteva però essere anche duro, collerico, verbalmente violento, tanto che voi ragazzi non riuscivate a credere alla governante quando vi raccontava che da giovane era gentile ed esuberante.
«Al fondo era un buon padre. Avevamo più accesso a lui che a nostra madre. Proprio il suo mestiere, la ferrea scansione della giornata, gli permetteva di essere molto presente».
E vi parlava dei suoi libri?
«No, non lo faceva con nessuno. Né prima, né dopo, né durante. Parlava delle cose della vita. Non parlavamo dei personaggi dei romanzi, ma delle stesse circostanze che poi si ritrovavano puntualmente nei libri. Da ragazzo il riconoscerle mi provocava un forte disagio. Non ero un grande lettore; ero un adolescente molto sensibile ai dettagli autobiografici, e ne ricavavo una certa pena. Solo molto dopo, fra i trenta e i quarant’anni, ho cominciato a leggere veramente i libri di mio padre. E questa scoperta mi ha dato anche l’opportunità di avere con lui un rapporto profondo».
In quel momento ha trovato qualcosa di ignoto? stata una scoperta o il riconoscere qualcosa?
«Direi che ho riconosciuto la vita della nostra famiglia. La scoperta più importante è stato lui».
Da adolescente il rapporto era più difficile?
«L’adolescenza è sempre complicata. Con mio padre lo è stato in particolare non perché fosse un romanziere celebre, ma perché era una personalità molto forte. Non era però una persona così "difficile". Aveva un’enorme forza di carattere, ma non un ego sovradimensionato. Non era mai in competizione con i suoi figli, anzi mi lasciava libero di fare le mie scelte. Però tutti, nella vita quotidiana, mi riconoscevano come "figlio di". E io mi ribellavo, ma solo perché il mio carattere aveva bisogno di affermarsi. Lui sapeva essere anche molto comprensivo».
Quale è stato il primo libro che suo padre le ha consigliato?
«Joseph Conrad. Mi ha sempre parlato di lui, ed è il primo autore che mi ha consigliato di leggere. Poi tutti i russi, e Stevenson. Si era formato come è ovvio sui grandi francesi dell’Ottocento, ma per lui contavano veramente solo Conrad e Gogol».
Che cosa le ha insegnato?
«L’autonomia, il non mascherarsi, e il fatto che le apparenze sociali non devono contare. E poi a essere molto esigenti con noi stessi. Lui si considerava un artigiano, e lo era: un artigiano ambizioso. Voleva il meglio. Ma non parlava mai di genio, semmai di lavoro, di forme, di mestiere da apprendere. E mi ha insegnato che le grandi felicità non esistono se non come una somma di piccole gioie. Ma vanno conquistate. Penso che sia quello che ogni genitore deve trasmettere ai suoi figli».