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 2009  maggio 14 Giovedì calendario

IL FALSO MITO DEL TALENTO NATURALE


Il genio nasce dall’allenamento Anche Mozart ha dovuto studiare

di DAVID BROOKS
La gente nutre ancora idee romanti­che a proposito del genio: crede che sia il prodotto di una scintilla divina. Molti sono convinti che nel corso dei secoli siano esistiti cam­pioni di eccellenza – come Dante, Mozart, Einstein – il cui talento andava ben al di là dell’umana comprensione e sfiorava addirittu­ra la verità suprema. Fortunatamente noi vivia­mo nell’era della scienza e la ricerca moderna sa sfatare i falsi miti.

Ai nostri giorni, predomina l’opinione che persino le speciali e precoci doti di un Mozart non fossero affatto conseguenza di qualche dono spirituale innato. Le sue prime composi­zioni non presentano meriti particolari, appa­iono piuttosto rimaneggiamenti di opere al­trui. Sin dalla più tenera età, Mozart fu un buon musicista, ma in nessun modo si sareb­be distinto dai nostri bimbi prodigio. Quello che contraddistingue Mozart, e questo lo ab­biamo capito oggi, è un tratto in comune con Tiger Woods, ovvero un’ottima capacità di concentrazione e un papà deciso a coltivare il talento del figliolo. Fin da bambino, Mozart si esercitava costantemente al pianoforte e ben presto raggiunse le 10 mila ore di pratica, sul­le quali avrebbe costruito in seguito la sua car­riera.

Le più recenti indagini suggeriscono una vi­sione del mondo assai più prosaica e democra­tica, se non addirittura puritana. Il fattore chiave che separa il genio dall’eccellenza non è affatto la scintilla divina. E non è nemmeno il quoziente di intelligenza, solitamente un in­dicatore inaffidabile del futuro successo, per­sino in un campo come gli scacchi. Il segreto sta nella pratica, svolta con metodo e convin­zione. Coloro che eccellono, in qualunque campo, trascorrono moltissime ore a esercita­re rigorosamente il loro mestiere. Le ultime ricerche sono state condotte da studiosi come K. Anders Ericsson, lo scomparso Benjamin Bloom e altri, e riassunte in due godibilissimi nuovi libri: «The Talent Code», di Daniel Coy­le, e «Talent Is Overrated», di Geoff Colvin.

Se volete capire come si sviluppa un tipico genio, prendete una ragazzina con capacità verbali appena al di sopra della media. Non occorre un grande talento, solo quanto basta per darle un senso di distinzione. Poi fatele conoscere, diciamo, uno scrittore, che di pre­ferenza condivide con lei alcuni dettagli bio­grafici. Forse è nato nella stessa città, ha le me­desime radici etniche oppure lo stesso com­pleanno, qualunque cosa possa creare un sen­so di affinità. Questo contatto potrebbe offri­re alla ragazzina un’idea del suo potenziale fu­turo. Potrebbe farle scorgere, Coyle ci tiene a ribadire, quello spiraglio di un cerchio incan­tato nel quale entrare in futuro. A questo pun­to, se uno dei genitori dovesse per caso venire a mancare verso i suoi 12 anni, una perdita si­mile genererebbe purtroppo un profondo sen­so di insicurezza ma anche una fame dispera­ta di successo. Armata di ambizioni, la ragazzi­na allora leggerebbe romanzi e biografie lette­rarie a non finire, accumulando le conoscen­ze di base del suo settore: da una parte i ro­manzi vittoriani, da un’altra gli esponenti del realismo magico e ancora in un altro scompar­to i poeti rinascimentali. Questa capacità di suddividere le informazioni in campi, o secon­do modelli precisi, affina notevolmente la me­moria. La nostra ragazza saprebbe indagare più a fondo i nuovi testi e afferrarne rapida­mente i meccanismi interni.

Poi si metterebbe a scrivere, una pratica len­ta, laboriosa e spietata. Racconta Colvin che Ben Franklin prendeva i saggi pubblicati nella rivista The Spectator e li metteva in versi. Poi trasformava nuovamente i versi in prosa e stu­diava, frase per frase, tutti i punti in cui il suo saggio gli sembrava inferiore all’originale. Coyle descrive una scuola di tennis in Russia dove le partite si giocano senza pallina. Lo sco­po è quello di concentrarsi meticolosamente sulla tecnica (provate a rallentare il vostro swing di golf per eseguirlo in 90 secondi, e contate gli errori!). Nell’esercitarsi a questo modo, si rallenta il processo di automatizza­zione. La mente cerca sempre di trasformare abilità apprese consapevolmente di recente in azioni inconsapevoli e automatiche. Ma la mente è facilona, e si accontenta presto. Nel fare pratica lentamente, scomponendo i gesti in piccole parti e ripetendoli all’infinito, lo stu­dente assiduo costringe il cervello a interioriz­zare un modello superiore di esecuzione.

Torniamo alla nostra scrittrice in erba, che a questo punto si cercherà un maestro capace di esaminare il suo lavoro dall’esterno e di cor­reggere i più piccoli errori, incitandola ad af­frontare sfide sempre più impegnative. Ora la giovane si applica a risolvere alcuni problemi – come riunire tutti i personaggi in una stan­za – provando e riprovando decine di volte, e così facendo rafforza abitudini mentali alle quali potrà attingere per capire e superare fu­turi ostacoli. La caratteristica fondamentale della nostra ragazza non è una qualche miste­riosa forma di genio, bensì la capacità di svi­luppare procedure di esercitazione consape­voli, inflessibili e ripetitive. Coyle e Colvin de­scrivono decine di esperimenti a conferma di questo processo. La ricerca spoglia i grandi successi del loro alone di magia ma ribadisce un fatto che è spesso trascurato: il dibattito pubblico oggi è dominato dalla genetica e da ciò che saremmo «programmati» a fare, ed è vero che il nostro patrimonio genetico gesti­sce le nostre potenzialità. Ma non dimenti­chiamo che il cervello è anche straordinaria­mente plastico. Noi ci costruiamo attraverso il comportamento. Nelle parole di Coyle, non conta chi siamo, ma quello che facciamo.

traduzione di Rita Baldassarre

© New York Times Syndicate