Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 11 Lunedì calendario

FMI, CAMBIA LA GEOGRAFIA DEL POTERE


Atrovare la sintesi migliore ci ha pensato un delegato dall’anello d’oro al lobo destro e codino da pirata dietro la nuca, stretto in un gessato blu su cravatta amaranto. «No taxation without representation», ha scandito l’uomo nel microfono, «nessun prelievo senza rappresentan­za ». E chissà se quel signore dall’orecchino, il mini­stro delle Finanze svedese Anders Borg, ha afferra­to fino in fondo la sua stessa ironia. Ma agli statuni­tensi in sala dev’essere suonata, inevitabilmente, amara.

L’occasione era l’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale del mese scorso, mini­stri e delegati di 184 Paesi raccolti in una sala a Washington. lì che Borg ha scelto un motto della rivoluzione americana di oltre due secoli fa per di­re che ora toccava al mondo: la crisi finanziaria, il conseguente aumento di risorse per l’Fmi deciso dal G20 di Londra e la disponibilità di nuovi prota­gonisti come Cina o Brasile di contribuirvi in mo­do determinante, faceva di quell’assemblea una tappa simbolica. La rivoluzione della rappresentan­za, stavolta, è globale. E il punto d’arrivo, sostiene Adam Posen, vicedirettore del Peterson Institute for International Economics, è una riforma del Fon­do «che dia ai Paesi che vogliono mettere i soldi per l’aumento delle riserve più voce e un ruolo più chiaro nel governo» dell’organismo multilaterale.

«Se Cina, Arabia Saudita o Brasile non volessero contribuire in modo adeguato sarebbe un conto’ dice Posen ”. Ma dato che invece possono e vo­gliono metterci i soldi, non c’è più giustificazione per non far loro concessioni».

In fondo, non sarebbe neanche una sorpresa. Che il sisma finanziario e gli stessi sensi di colpa dei Paesi che ne sono l’epicentro avrebbero smos­so le gerarchie formali o meno del mondo, era lar­gamente atteso. Tre mesi fa, un concetto del gene­re lo aveva espresso brutalmente Roger Altman. Ca­po del fondo di investimento Evercore, ex numero due del Tesoro Usa durante il primo mandato di Bill Clinton, Altman ha affidato la sua facile previ­sione a un saggio su Foreign Affairs: «I danni (della crisi, ndr) hanno messo il modello americano di capitalismo sotto una nube», scrisse. Invece, «la posizione relativamente indenne della Cina le dà l’opportunità di consolidare i suoi vantaggi strategici mentre gli Stati Uniti e l’Europa faticano per riprendersi. Pechino sarà nella posizione di assistere altri Paesi sul piano finanziario e fare investimenti chiave».

Ma queste, appunto, erano le grandi linee, colorite magari della velata ironia sull’Occidente del vice- premier cinese Wang Qishan: «I maestri, attualmente, hanno qualche problema». La differenza ora è che la svolta impressa dal G20 di Londra all’Fmi e il ruolo centrale assunto dal Fondo nel tamponare la crisi soprattutto (ma non solo) in Europa dell’Est stanno accelerando tutto. Quel blocco di cemento sulla diciannovesima strada a Washington è il luogo fisico nel quale spostamenti globali di lungo periodo precipitano in fatti concreti adesso.

La sequenza delle ultime sei settimane non lascia dubbi: a inizio aprile il G20 ha deciso di triplicare le risorse del Fondo da 250 a 750 miliardi di dollari, ma fin qui solo il Giappone ha contribuito con cento miliardi. Cina e Brasile hanno segnalato la loro disponibilità a fornire probabilmente circa 150 miliardi in due, e senza di loro la promessa del G20 resterebbe vuota. Possono permetterselo: la Cina ha 2 mila miliardi di dollari di riserve ufficiali da investire e la traiettoria del debito pubblico di Brasilia punta in basso verso il 25% del prodotto lordo (all’opposto, molti Paesi avanzati stanno salendo oltre l’80% o il 100%).

Sono loro due, nota Posen del Peterson Institute, «i maggiori vincitori relativi all’uscita della crisi». E non c’entra solo il loro ruolo di leader delle rispettive regioni del mondo. «Sono i più vicini alla ripresa, hanno seguito politiche economiche interne responsabili, hanno mostrato all’America e all’Europa che una certa disciplina di mercato è la via da seguire e non si sono macchiati dei problemi di gestione del settore finanziario». Il problema è che entrambi ora vogliono contare di più. Sono loro due che hanno condizionato il loro prestito al Fondo alla garanzia che le loro quote e i relativi diritti di voto nel consiglio dell’organismo saranno sostanzialmente rivisti al rialzo con la riforma da decidere nei prossimi 18 mesi. «No taxation without reprentation» è il loro messaggio, al quale si stanno accodando Arabia Saudita, Giappone e, meno credibilmente visto lo stato pessimo dell’economia, anche la Russia. E visto che l’Ue non è pronta a intervenire direttamente con risorse massicce sul proprio fianco Est, sul confronto all’interno del Fmi si gioca anche parte della stabilità della fascia dal Baltico ai Balcani.

Si spiegano anche così le concessioni che i Paesi avanzati hanno iniziato a offrire o almeno discutere. Tim Geithner, segretario al Tesoro americano, all’assemblea del Fondo a fine aprile, a suo modo ha voltato pagina dopo 60 anni. Per la prima volta, con lui l’America ha aperto ai consigli e alle osser­vazioni del Fondo: «Non possiamo formulare le no­stre politiche nell’isolamento», ha detto aprendo a una sorveglianza multilaterale «indipendente e franca». Per la prima volta un’amministrazione Usa aprirà dunque le porte agli ispettori del Fmi sulla vigilanza finanziaria (i cosiddetti rapporti Fsap) e macroeconomica (i rapporti «Articolo 4»). Sono gli stessi che ogni anno imbarazzano il gover­no italiano e altri, benché non sia affatto detto che la Casa Bianca sia disposta a lasciarsi imbarazzare così facilmente. «Non saremo sempre d’accordo», ha avvertito subito Geithner, e intanto i suoi stan­no già lavorando per limitare l’accesso ai tecnici del Fmi.

Altra capitale in relativa ritirata nel sommovi mento in corso è il Regno Unito. Già prima della crisi, il Fondo aveva creato un supercomitato di consultazione sulle valute che per la prima volta escludeva Londra e si limitava ad americani, cine­si, giapponesi, sauditi e area-euro. E la crisi finan­ziaria e di bilancio è così profonda che nei giorni scorsi lo staff del Fmi ha messo a punto un conti­gency plan, un piano d’intervento per sostenere il governo di Londra con un prestito se la situazione dovesse avvitarsi. Anche qui, non manca una rea­zione degna di un ex impero: Londra sta resisten­do furiosamente a qualunque ruolo di vigilanza fi­nanziaria nell’Ue da parte della Banca centrale euro­pea (un club nel quale non ha voce) e Adair Tur­ner, il capo della Fsa (la Consob britannica) sta fa­cendo un giro dei grandi investitori globali per se­gnalare che nella City i vincoli saranno sempre mi­nori che altrove. Mervyn King, governatore della Bank of England, propone di equiparare il board del Fmi e il G20: stessi Paesi e stessi seggi, anche perché lì Londra conta e l’area-euro è frammenta­ta.

Ma il punto è proprio l’area-euro: perché Brasi­le, Cina o Giappone aumentino i loro voti nel Fmi, la via più ovvia è che i Paesi di Eurolandia rinunci­no ai seggi nazionali per un seggio unico dell’area. Ciò libererebbe quote per le capitali emergenti. «Va fatto, per il bene dell’Europa, del mondo e per senso di giustizia» dice Posen. «Molti a Bruxelles e nella Bce sono pronti, ma i governi no». Ted Tur­ner, numero due di Geithner, ne fa da tempo una battaglia personale e ora il momento per farlo può essere propizio: il direttore generale del Fmi è un francese, Dominique Strass-Kahn e lo è anche il suo braccio destro, il capo-economista Olivier Blanchard. Provarci in futuro, quando il Fondo sa­rà guidato magari da un brasiliano o da un cinese, potrebbe riuscire meno comodo.