Lorenzo Cremonesi, Corriere della sera 11/5/2009, 11 maggio 2009
E I PROFUGHI DALLA VALLE TALEBANA ABBANDONANO LE CASE E IL RACCOLTO
MARDAN – Sono arrampicati a grappoli sui cassoni dei camion colorati. Le auto hanno i portapacchi sul tetto carichi all’inverosimile di valigione tenute assieme da corde di canapa, e poi coperte, secchi, pentole, e materassi, soprattutto materassi per i bivacchi dei prossimi giorni. All’interno degli abitacoli, le donne si coprono il viso non appena uno straniero le fissa. E dovunque sono stipati bambini, accaldati, piangenti, che saltano sulle ginocchia degli autisti che lasciano fare, stanchi per le lunghe ore di tensione segnate dalla paura dei bombardamenti, stremati dalle attese ai posti di blocco.
Si distinguono immediatamente i veicoli dei profughi in fuga da Swat, Dir, Buner e le altre regioni dove da cinque giorni l’esercito pachistano ha lanciato contro i talebani quella che il presidente Asif Ali Zardari ieri è tornato a definire la «battaglia decisiva per la sopravvivenza del nostro Paese». Ieri per tutta la giornata hanno lentamente sfilato verso sud, con il caldo che nelle ore centrali già supera i 35 gradi, fra i lanci di bottiglie d’acqua, biscotti e pacchetti di patatine da parte dei giovani volontari delle organizzazioni caritative islamiche locali.
Centinaia e centinaia di veicoli di ogni genere. Colorati, pulsanti di vita nel loro carico di umanità dolente e impaurita. Secondo le autorità, da qui solo nelle ultime 24 ore sono transitati in oltre 100.000. L’Onu parla già di oltre mezzo milione di profughi. Ma i media locali riportano il doppio della cifra. E sottolineano: «Chi può, la maggioranza evita i campi di tende, si rifugia da parenti e amici verso Islamabad e Lahore, sino a Karachi». Passata Peshawar, solo due ore di viaggio sulla nuova autostrada da Islamabad, in circa un’ora si arriva a Mardan. Da qui l’accesso per la vallata di Swat è a meno di 50 chilometri. Ma il primo posto di blocco dell’esercito si trova soltanto una decina di chilometri più avanti. Di qua verso nord possono transitare unicamente le truppe impegnate nell’offensiva. Ed è qui che vengono accolti i profughi per la prima assistenza. Il luogo si chiama «Jalala Camp». Ieri mattina vi erano state montate 200 tende (ognuna in grado di ospitare almeno 10 persone) dell’Onu oltre ad alcune decine delle organizzazioni pachistane.
A mezzogiorno erano stati piazzati anche un grande tendone-moschea, la zona dei servizi igienici, quella della mensa e una piccola clinica d’emergenza.
Pochi i segnali dei combattimenti. Qualche elicottero in cielo. Il passaggio di colonne motorizzate di soldati. Ogni tanto il rombo dell’artiglieria, lontano, verso la striscia scura delle montagne all’orizzonte. Nel suo bollettino quotidiano il portavoce dell’esercito, generale Athar Abbas, parla di 400 morti tra la guerriglia talebana in cinque giorni. «Circa 200 nelle ultime 24 ore», specifica. Se fosse confermato, ad ascoltare le autorità pachistane, i talebani avrebbero dunque perso quasi un decimo dei loro effettivi, valutati in un numero compreso tra i 4 e 5 mila uomini. Ma sono per primi i giornalisti locali a mettere in guardia. «Non esiste alcuna conferma. In realtà non ci sono fonti indipendenti. Nessun osservatore o giornalista può raggiungere le zone dei combattimenti. E in passato le cifre delle vittime talebane sono spesso state gonfiate dai militari», osserva tra gli altri Rahimullah Yusufzai, decano dei reporter di Peshawar e corrispondente per il quotidiano in lingua inglese The News. A suo dire questa nuova offensiva militare contro i talebani trova in via di principio un largo consenso non solo tra la popolazione del Pakistan in generale, ma per una volta anche «tra quella residente in larghi settori delle zone colpite, che si è stancata dell’estremismo islamico crescente tra i mullah che guidano le bande di giovanissimi talebani». Ma con un grosso limite, come Yusufzai notava anche nell’articolo pubblicato ieri mattina: «Se le vittime civili dovessero crescere, il consenso per il governo potrebbe rapidamente trasformarsi in malcontento». Un sentimento questo facile da percepire tra i profughi.
«Il nostro problema maggiore sono gli animali che abbiamo dovuto abbandonare in fretta e furia sotto l’incalzare delle bombe e soprattutto i nostri campi di grano, che non possiamo mietere », dice tra i tanti Azrat Mohammad, un cinquantenne, la cui misera consolazione è di essere riuscito a portare via due galline.
Già, il raccolto. Questa è una società ancora profondamente contadina, guidata, dominata dai ritmi ancestrali della vita nei campi. «Se il governo non permetterà a questa gente di tornare presto alle loro case per mietere il grano, scoppierà una grande crisi economica. Un gigantesco dramma collettivo. E i talebani torneranno a raccogliere consensi», aggiunge Yusufzai. All’infermeria, nella parte destinata alle donne, un paio di ragazze ricordano che nell’ultimo anno tutte le scuole femminili erano state chiuse. «I talebani stavano imponendo la loro interpretazione del Corano, come in Afghanistan. Nessuna donna poteva più uscire di casa da sola, neppure per fare la spesa o andare al mercato. Doveva per forza essere accompagnata da un uomo della famiglia», dice quasi gridando, rabbiosa, Nasib Jan. Una sua nipote, Dilshab, 13 anni, si lamenta però non dei talebani, ma della famiglia che in nome della tradizione pashtun quando è rimasta orfana l’ha obbligata a sposarsi con un lontano parente. «Peccato. Avrei voluto continuare a studiare e diventare maestra», aggiunge.
Poco più in là, tra le tende diventate bollenti sotto il sole, i più però se la prendono con l’esercito: «Ma perché i nostri comandi non usano le truppe di terra? I soldati pachistani sparano da lontano. Aviazione e artiglieria uccidono la nostra gente, distruggono le nostre case. Fanno come gli americani in Afghanistan e così alla fine i nostri ragazzi, per rabbia, potrebbero unirsi ancora più numerosi ai ranghi dei più pazzi tra gli estremisti talebani».