Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 11 Lunedì calendario

E I PROFUGHI DALLA VALLE TALEBANA ABBANDONANO LE CASE E IL RACCOLTO


MARDAN – Sono arrampicati a grappoli sui cassoni dei camion colorati. Le auto hanno i por­tapacchi sul tetto carichi all’inverosimile di vali­gione tenute assieme da corde di canapa, e poi coperte, secchi, pentole, e materassi, soprattut­to materassi per i bivacchi dei prossimi giorni. All’interno degli abitacoli, le donne si coprono il viso non appena uno straniero le fissa. E do­vunque sono stipati bambini, accaldati, pian­genti, che saltano sulle ginocchia degli autisti che lasciano fare, stanchi per le lunghe ore di tensione segnate dalla paura dei bombardamen­ti, stremati dalle attese ai posti di blocco.

Si distinguono immediatamente i veicoli dei profughi in fuga da Swat, Dir, Buner e le altre regioni dove da cinque giorni l’esercito pachi­stano ha lanciato contro i talebani quella che il presidente Asif Ali Zardari ieri è tornato a defini­re la «battaglia decisiva per la sopravvivenza del nostro Paese». Ieri per tutta la giornata han­no lentamente sfilato verso sud, con il caldo che nelle ore centrali già supera i 35 gradi, fra i lanci di bottiglie d’acqua, biscotti e pacchetti di patatine da parte dei giovani volontari delle or­ganizzazioni caritative islamiche locali.

Centinaia e centinaia di veicoli di ogni gene­re. Colorati, pulsanti di vita nel loro carico di umanità dolente e impaurita. Secondo le autori­tà, da qui solo nelle ultime 24 ore sono transita­ti in oltre 100.000. L’Onu parla già di oltre mez­zo milione di profughi. Ma i media locali riporta­no il doppio della cifra. E sottolineano: «Chi può, la maggioranza evita i campi di tende, si rifugia da parenti e amici verso Islamabad e Lahore, sino a Karachi». Passata Peshawar, solo due ore di viaggio sulla nuova autostrada da Islamabad, in circa un’ora si arriva a Mardan. Da qui l’accesso per la vallata di Swat è a meno di 50 chilometri. Ma il primo posto di blocco dell’esercito si trova soltanto una decina di chi­lometri più avanti. Di qua verso nord possono transitare unicamente le truppe impegnate nel­l’offensiva. Ed è qui che vengono accolti i profu­ghi per la prima assistenza. Il luogo si chiama «Jalala Camp». Ieri mattina vi erano state monta­te 200 tende (ognuna in grado di ospitare alme­no 10 persone) dell’Onu oltre ad alcune decine delle organizzazioni pachistane.

A mezzogiorno erano stati piazzati anche un grande tendone-moschea, la zona dei servizi igienici, quella della mensa e una piccola clinica d’emergenza.

Pochi i segnali dei combattimenti. Qualche elicottero in cielo. Il passaggio di colonne moto­rizzate di soldati. Ogni tanto il rombo dell’arti­glieria, lontano, verso la striscia scura delle montagne all’orizzonte. Nel suo bollettino quo­tidiano il portavoce dell’esercito, generale Athar Abbas, parla di 400 morti tra la guerriglia talebana in cinque giorni. «Circa 200 nelle ulti­me 24 ore», specifica. Se fosse confermato, ad ascoltare le autorità pachistane, i talebani avreb­bero dunque perso quasi un decimo dei loro ef­fettivi, valutati in un numero compreso tra i 4 e 5 mila uomini. Ma sono per primi i giornalisti locali a mettere in guardia. «Non esiste alcuna conferma. In realtà non ci sono fonti indipen­denti. Nessun osservatore o giornalista può rag­giungere le zone dei combattimenti. E in passa­to le cifre delle vittime talebane sono spesso sta­te gonfiate dai militari», osserva tra gli altri Rahimullah Yusufzai, decano dei reporter di Pe­shawar e corrispondente per il quotidiano in lin­gua inglese The News. A suo dire questa nuova offensiva militare contro i talebani trova in via di principio un largo consenso non solo tra la popolazione del Pakistan in generale, ma per una volta anche «tra quella residente in larghi settori delle zone colpite, che si è stancata del­l’estremismo islamico crescente tra i mullah che guidano le bande di giovanissimi talebani». Ma con un grosso limite, come Yusufzai notava anche nell’articolo pubblicato ieri mattina: «Se le vittime civili dovessero crescere, il consenso per il governo potrebbe rapidamente trasfor­marsi in malcontento». Un sentimento questo facile da percepire tra i profughi.

«Il nostro problema maggiore sono gli anima­li che abbiamo dovuto abbandonare in fretta e furia sotto l’incalzare delle bombe e soprattutto i nostri campi di grano, che non possiamo mie­tere », dice tra i tanti Azrat Mohammad, un cin­quantenne, la cui misera consolazione è di esse­re riuscito a portare via due galline.

Già, il raccolto. Questa è una società ancora profondamente contadina, guidata, dominata dai ritmi ancestrali della vita nei campi. «Se il governo non permetterà a questa gente di torna­re presto alle loro case per mietere il grano, scoppierà una grande crisi economica. Un gigan­tesco dramma collettivo. E i talebani torneran­no a raccogliere consensi», aggiunge Yusufzai. All’infermeria, nella parte destinata alle donne, un paio di ragazze ricordano che nell’ultimo an­no tutte le scuole femminili erano state chiuse. «I talebani stavano imponendo la loro interpre­tazione del Corano, come in Afghanistan. Nessu­na donna poteva più uscire di casa da sola, nep­pure per fare la spesa o andare al mercato. Dove­va per forza essere accompagnata da un uomo della famiglia», dice quasi gridando, rabbiosa, Nasib Jan. Una sua nipote, Dilshab, 13 anni, si lamenta però non dei talebani, ma della fami­glia che in nome della tradizione pashtun quan­do è rimasta orfana l’ha obbligata a sposarsi con un lontano parente. «Peccato. Avrei voluto continuare a studiare e diventare maestra», ag­giunge.

Poco più in là, tra le tende diventate bollenti sotto il sole, i più però se la prendono con l’eser­cito: «Ma perché i nostri comandi non usano le truppe di terra? I soldati pachistani sparano da lontano. Aviazione e artiglieria uccidono la no­stra gente, distruggono le nostre case. Fanno co­me gli americani in Afghanistan e così alla fine i nostri ragazzi, per rabbia, potrebbero unirsi an­cora più numerosi ai ranghi dei più pazzi tra gli estremisti talebani».