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 2009  maggio 11 Lunedì calendario

I FIGLI DI TIENANMEN


«Pensi che possono mandare l´esercito a ucciderci?» Zhang Xianling non dimenticherà mai quella domanda. Le ultime parole di suo figlio. E non può perdonarsi di avergli risposto: «E´ impossibile, non è mai successo, il partito comunista non lo ha fatto neppure durante le violenze della Rivoluzione culturale. Possono sparare proiettili di gomma o prendervi a manganellate. Proteggiti la testa». Era la sera del 3 giugno 1989, suo figlio Wang Nan aveva 19 anni e ancora poche ore di vita. Nella notte sarebbe morto a Piazza Tienanmen. Era venuto a casa dei genitori che avevano amici a cena. Ma quando dalle finestre si udirono i primi spari Wang era già là fuori. «Da un mese andava ogni giorno a Tienanmen – mi dice la mamma – aveva seguito tutto lo sciopero della fame iniziato il 13 maggio dagli studenti. La sua passione era la foto, da grande voleva fare il fotoreporter. Su e giù per la città in bicicletta, con l´apparecchio a tracolla: mi diceva che stava fissando la storia nelle sue foto». Wang avrebbe potuto lasciare centinaia di immagini, documenti eccezionali: la sua memoria di quel maggio 1989 quando Pechino sognò la democrazia. «Ma la macchina fotografica è scomparsa - racconta la madre – fu la prima cosa che gli strapparono i soldati mentre lui era a terra moribondo. E due giorni dopo i suoi amici bruciarono anche le foto che aveva a casa, erano prove che la polizia poteva usare per arrestarli».
Come quegli scatti di Wang distrutti per sempre, nella coscienza della Cina di oggi c´è un grande vuoto, il tabù di una pagina di storia cancellata d´imperio. La signora Zhang mi guida nei luoghi della tragedia, in uno straziante pellegrinaggio che lei ha ripetuto troppe volte in questi vent´anni. All´angolo della via Nanchang, l´ingresso occidentale di Piazza Tienanmen di fronte all´Assemblea del Popolo, ora scorrono fiumi di automobili, e una massa di passanti frettolosi e indifferenti. Lì mi indica il marciapiede dove il figlio è caduto.
Una madre che piange il figlio Un professore, oggi dissidente, che lottò con i suoi studenti. Un ex ragazzo ribelle diventato imprenditore di successo. Li accomuna il dolore, e il ricordo di una speranza. Quella nata nel maggio, e uccisa nel giugno, di vent´anni fa. Quando in Piazza Tienanmen l´"esercito del popolo" sparò su una generazione in cerca di libertà. Nei loro racconti la Cina di oggi si guarda allo specchio
"Come celebreremo questo ventennale? Probabilmente agli arresti domiciliari"
Oggi molti credono alla storia riscritta dal partito: quei ragazzi volevano la guerra civile

(SEGUE DALLA COPERTINA)
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
federico rampini
«L a pallottola è entrata dalla tempia e uscita dietro la nuca. Ma non è morto subito! C´era tanta gente attorno a lui, ho rintracciato i testimoni, ho ritrovato il medico Hu che cercava di soccorrere i feriti e fu bloccato dai soldati. Ho parlato con il tassista Liu, ricorda un´anziana donna in ginocchio che supplicava i militari, perché lasciassero portar via mio figlio che sanguinava alla testa. Una crudeltà mostruosa. Neppure in guerra si impedisce di curare i feriti». Camminiamo per poche decine di metri ed ecco sul fianco della Piazza la scuola media statale numero 28: la madre punta il dito, lì c´è l´aiuola dove il corpo di Wang Nan fu ritrovato a dieci giorni dal massacro. Almeno il suo cadavere si è salvato, l´ho potuto identificare. Sa perché? A scuola lui era arrivato primo in un´esercitazione, il premio era una cintura dell´esercito che lui metteva sempre. Nella confusione dopo la strage, quando i poliziotti sono venuti a portar via i morti, per la cintura qualcuno l´ha scambiato per un soldato e lo hanno sepolto lì. La maggior parte delle vittime invece le cremavano per far sparire le prove. Altre madri di Tienanmen hanno avuto una sorte perfino peggiore della mia, la morte dei loro figli è stata negata, censurata per sempre». Rientriamo a casa sua. La signora Zhang tira fuori da un armadio un vecchio casco rosso da motociclista. Fu l´unica precauzione che il figlio prese quella sera uscendo di casa, confortato dalle parole della madre: «Non spareranno per uccidere, non è possibile». Dietro, il casco è deformato da un gonfiore osceno, il grosso foro della pallottola.
Li ricorda bene quei ragazzi dell´89, il professor Xu Youyu. «Erano ingenui rivoluzionari, volevano cambiare la Cina ma molti di loro credevano ancora negli ideali che il comunismo gli aveva insegnato a scuola. L´esercito è del popolo, mi dicevano, starà dalla nostra parte». Xu viene a trovarmi a casa, sperando di eludere la sorveglianza della polizia. Lui è rimasto fedele agli ideali di quella primavera democratica. E´ un noto dissidente, nel dicembre scorso ha sfidato il regime firmando l´appello Carta 08 per i diritti umani. All´epoca della rivolta Xu aveva quarant´anni, insegnava all´Accademia delle Scienze Sociali e il maggio dell´89 lo visse con i suoi studenti fino all´ultimo. «Sono rimasto al centro di Piazza Tienanmen per tutta la notte, fra il 3 e il 4 giugno, mentre si stringeva la morsa dei carriarmati. Non potevo andarmene finché l´ultimo dei miei ragazzi non riusciva a scappare. Sono rientrato a casa all´alba, camminando come un automa in mezzo a quel paesaggio di morte. Sembrava un´allucinazione. Ricordo di aver sfiorato tre giovani distesi su un marciapiede, così calmi e immobili che ho pensato: perché dormono qui per terra, adesso? Erano crivellati di colpi».
Zhang Boshu oggi è un altro leader del nuovo dissenso cinese. L´89 cambiò la sua vita: «Aprii gli occhi sulla degenerazione del partito comunista, il baratro in cui è capace di precipitarci l´autoritarismo». Lui vent´anni fa fu salvato da un´istintiva paura della moglie. «La sera del 3 giugno - ricorda - ero tornato a riposare qualche ora a casa, in periferia, e lei fece sparire la mia bicicletta per impedirmi di tornare a passare quella notte con gli studenti». Anche lui è tra i firmatari di Carta 08. Oggi vive destreggiandosi tra le angherie del regime, la sorveglianza poliziesca sui suoi spostamenti, i castighi che gli infliggono le autorità accademiche. Ha l´aspetto di un giovane Pietro Nenni cinese, gli occhiali da ultramiope con le lenti spesse, la capigliatura scarmigliata, la foga nel parlare. Si esalta quando rivive l´atmosfera di quel maggio, ricostruisce giorno per giorno l´escalation degli eventi: «Per un mese e mezzo Pechino fu al centro dell´attenzione mondiale, ci sentivamo a un passo dalla conquista della libertà, fino a quella notte di terrore che uccise ogni illusione».
Tutto comincia il 22 aprile 1989 al funerale di Hu Yaobang, l´ex leader riformista del partito, quando il corteo funebre all´improvviso si trasforma in una gigantesca manifestazione di protesta. Il 4 maggio una marea studentesca invade Piazza Tienanmen, in ricordo di un´altra ribellione giovanile che sconvolse la capitale esattamente 70 anni prima. Proprio com´era accaduto all´inizio del Novecento, i giovani istruiti della capitale diventano l´avanguardia che dà voce a un´esasperazione diffusa in tutti gli strati sociali. Le riforme di mercato volute dall´erede moderato di Mao, Deng Xiaoping, stentano a diffondere il benessere e hanno portato l´inflazione alle stelle. Nel partito dilaga la corruzione. L´élite delle università assaggia i primi frutti dell´apertura verso il resto del mondo, divora le notizie dall´estero, si sente parte dello storico sommovimento in atto in Unione sovietica e nell´Europa centrale, discute di diritti umani, di democrazia. Il 13 maggio parte lo sciopero della fame tra i giovani accampati sulla Piazza Tienanmen: il centro simbolico del potere politico dai tempi degli imperatori. «Quella data fu scelta con cura - ricorda Zhang Boshu - perché il 15 era prevista la visita ufficiale del leader sovietico Michail Gorbaciov. In quel momento il regime cinese era spaccato. Deng vedeva un complotto destabilizzante, quei giovani in piazza gli evocavano ricordi di un altro caos, il decennio della Rivoluzione culturale. Sul fronte opposto c´era il segretario del partito, Zhao Ziyang, favorevole alle riforme politiche e disposto a dialogare con noi. In quella impasse speravamo che la visita di Gorbaciov potesse aiutarci. Urss e Cina erano ancora le due Chiese del comunismo mondiale, con Gorbaciov c´era un nuovo flusso di idee, la sensazione che tutto poteva cambiare». La visita del leader sovietico offriva anche una visibilità senza precedenti, per l´arrivo di tanti reporter occidentali al suo seguito. Gli studenti di Pechino fecero le mosse giuste per colpire l´opinione pubblica mondiale. L´immagine potente della Statua della Libertà in polistirolo eretta davanti alla gigantografia di Mao, all´ingresso della Città Proibita, era perfetta per le riprese della Cnn. Ma lo "spiraglio Gorbaciov" si richiuse in fretta. «Il 17 maggio la partita era compromessa - dice Zhang Boshu - Ai vertici la resa dei conti si era conclusa con la vittoria di Deng. Il 18 maggio Zhao Ziyang fece un gesto disperato, uscì dai palazzi del potere per venire a parlare con noi in Piazza Tienanmen. Era l´atto finale di un perdente, prima dell´uscita di scena. Zhao era ancora formalmente il capo del partito, in realtà il potere gli scivolava via dalle mani. Venne a scongiurarci di interrompere lo sciopero della fame. Piangeva e continuava a ripetere: è troppo tardi ormai. Quarantotto ore dopo, la sera del 19 maggio, scattava la legge marziale. Quando io andai a portare una lettera di protesta alla redazione del Quotidiano del Popolo, un vicedirettore mi rispose: "Ormai qui dentro pubblichiamo solo quello che comanda l´esercito"». Il massacro si poteva ancora evitare? «Noi ci illudevamo - ricorda Zhang Boshu - perché ci fu uno stallo di due settimane. Per due volte l´esercito tentò di entrare in città e fu respinto dalla popolazione civile, che era dalla nostra parte. Ma più il regime stentava a riprendere il controllo di Tienanmen, più Deng si allarmava, si convinceva che era in gioco la sopravvivenza del partito. E cresceva la sua determinazione».
La ferocia finale la ricorda anche Shen Shiyun, un ex-ragazzo dell´89 che oggi è rientrato nei ranghi, come la maggioranza dei suoi coetanei. Da piccolo imprenditore, proprietario di una rete di negozi di telefonini, nella Cina del 2009 Shen gode i tanti benefici dello sviluppo economico. Non ha lo spirito del reduce, non ha contatti con gli ambienti del dissenso. Nel suo mondo privato però custodisce la memoria di vent´anni fa, quel maggio che anche lui passò con i compagni a occupare Piazza Tienanmen. La sua vita ha voltato pagina; non per questo è disposto a perdonare il massacro: «Cominciarono a sparare dieci chilometri prima del centro. Aprirsi un varco nella folla che resisteva era così difficile che si facevano strada uccidendo. Tra la gente di Pechino nessuno poteva credere che sarebbero stati capaci di tanto. Quando si capì che avevano l´ordine di fare una strage la gente urlava con orrore: "è peggio dell´invasione giapponese!". La controreazione fu spontanea: tank assaliti, incendiati, soldati aggrediti. Ma contro l´esercito non avevamo chances. A me hanno ammazzato l´amico più caro, un giovane ricercatore dell´università, morto in ospedale dopo venti giorni di agonia. In seguito per anni la polizia si è accanita sulla sua vedova. Ogni 5 aprile alla festa dei morti, ogni 4 giugno, lei riceveva minacce e avvertimenti pesanti: proibito unirsi agli altri parenti delle vittime. Un giorno è sparita, ha fatto perdere le tracce, ha tagliato tutti i rapporti anche con me, forse non sopportava più il peso di quel ricordo». L´imprenditore Shen è la prova vivente che il regime non ha usato solo la repressione. Vent´anni di boom hanno costruito una base di consenso reale, il progresso nelle condizioni di vita è stato stupefacente. Eppure anche lui conserva uno spirito critico: «Dopo Tienanmen - dice - il partito ha anestetizzato le nuove generazioni con l´ideologia del denaro. Questi giovani apolitici non si pongono più domande».
Il revisionismo di regime è riuscito a riscrivere la storia. Molti cinesi hanno finito per accettare l´unica versione di quegli eventi, quella di Deng: secondo lui gli studenti di Tenanmen stavano per trascinare il paese in una nuova guerra civile, come nel primo Novecento o nella Rivoluzione culturale. «E la maggior parte degli intellettuali da allora sono stati letteralmente comprati - osserva il professor Xu - Mai nella storia della Cina c´erano state tante opportunità di carriera e di arricchimento. Promozioni, denaro, successo, abbondano per chi accetta di stare al gioco».
Due generazioni di leader si sono succedute al potere dopo Deng. Neppure l´attuale classe dirigente, tecnocratica e modernizzatrice, trova il coraggio di un gesto pacificatore. Il numero delle vittime dell´89 rimane coperto dal segreto di Stato. «E´ la logica del regime, perché discutere liberamente quella tragedia è un passo pericoloso per loro. Il dogma dell´infallibilità del partito non si può rimettere in gioco. Si aprirebbe la strada al pluralismo, i cinesi chiederebbero di più». I dissidenti Xu e Zhang, la mamma del fotografo Wang, non sanno ancora come passeranno questo 4 giugno. Si avverte il desiderio di un gesto, una testimonianza, anche privata, perché il ventennale non passi sotto silenzio. «Probabilmente finiremo agli arresti domiciliari molto prima», commenta amaro il professor Xu.