Cristina Casadei, ཿIl Sole-24 Ore 13/5/2009;, 13 maggio 2009
IN ITALIA E USA LA STESSA PAGA
ormai un mito da sfatare che il problema sia solo il costo del lavoro. Sulla decisione delle multinazionali metalmeccaniche di chiudere uno stabilimento piuttosto che un altro, di investire o disinvestire, pesa un gomitolo di motivazioni. C’entra la posizione geografica, la logistica, la flessibilità, la sindacalizzazione dei lavoratori, il costo dell’energia. Sia che riguardi le auto che gli elettrodomestici, il futuro del lavoro dei metalmeccanici in Italia dipende da una serie di variabili in cui, come dicono chiaramente i dati internazionali che ha ci fornito la Imf metal, ossia la International metalworkers federation, il costo del lavoro ha un peso sempre meno determinante. Alla vigilia del rinnovo del contratto della categoria, in Italia si è aperta un’importante riflessione che, nonostante la crisi e la necessità di rimanere unite, vede le organizzazioni sindacali divise e decise ad andare verso la presentazione di una piattaforma separata.
Negli anni Ottanta, quando multinazionali come Electrolux o Whirpool decisero di venire a produrre in Italia, il nostro paese era una zona low cost, grazie alla combinazione tra il basso costo del lavoro e le agevolazioni delle aree depresse in cui rientravano le regioni del Sud, ma anche alcune del nord come il Friuli Venezia Giulia. «Quel tempo è ormai definitivamente alle spalle – racconta Gianluca Ficco della Uilm – e il costo del lavoro, per esempio, è allineato alla media europea».
La globalizzazione ha ribaltato la catena del valore e così i temi che in passato si trovavano sempre in fondo e di cui si è sempre discusso poco, oggi sono diventati decisivi per mantenere la produzione in un sito piuttosto che in un altro. La catena del valore si è spostata sempre più verso la logistica e il commercio e questo spiega anche perché gli stabilimenti per poter essere produttivi devono avere numeri molto elevati. Se prendiamo un grande elettrodomestico, secondo un calcolo fatto dalla Fim-Cisl, il costo diretto della produzione ossia il costo del lavoro degli operai rappresenta il 12,4%, quello indiretto ossia il costo del lavoro degli impiegati il 9%, quello delle materie prime e dei componenti il 68%, la manutenzione degli impianti l’ 1% e così via. Si spiega così che nelle decisioni di produrre in Polonia ci sono ragioni che vanno ben al di là della voce costo del lavoro.
Scorrendo la tabella che confronta la paga oraria netta dei metalmeccanici di tutto il mondo, l’Italia con 13,87 euro può dirsi decisamente vantaggiosa rispetto alla Germania dove è di 21,90 euro, ossia il valore più alto in assoluto, o il Canada dove è di 16,69 euro. Un po’ più svantaggiosa del Regno Unito dove è 12,81 euro, della Francia doveè 10,45 euro e degli Stati Uniti dove è 13,46 euro. Certo lontana dai nuovi paesi low cost dove le multinazionali, comprese quelle con l’headquarter in Italia, stanno facendo importanti investimenti. In Italia la retribuzione dei metalmeccanici è quattro volte e mezzo quello rumeno ( 3,04), ben tre volte che in Polonia dove è 4,73 euro e qualcosa meno che in Cina dove è 5,86 euro. quattro volte che in Brasile dove è 3,62 euro, sei volte che in Serbia dove è 2,83 euro.
Sensibili le differenze nel potere d’acquisto. Infatti se in Brasile per un chilo di farina un metalmeccanico deve lavorare ben 12 minuti e in Cina 11 e mezzo, in Canada 3 e mezzo, in Germania appena un minuto e mezzo, in Gran Bretagna e Italia 4, in Polonia 6 e mezzo. Se prendiamo un chilo di carne di vitello per comprarla un metalmeccanico in Brasile deve lavorare 8 minuti, in Canada 35, in Cina 38, in Germania 29 e mezzo, nel Regno Unito 8, in Italia ben 51 minuti e mezzo, in Polonia 11 e mezzo. La Germania per l’acquisto del cibo è il paese dove in media i metalmeccanici devono lavorare meno tempo e dove il loro poter d’acquisto appare più alto.
Non deve essere un caso insomma che la potentissima e ascoltatissima Igm metal, il più forte sindacato dei metalmeccanici, sia proprio in Germania. E ancor meno lo è che in Brasile «pur avendo molti iscritti il potere del sindacato si ferma prima della porta della fabbrica e non c’è una rappresentanza sindacale in fabbrica che discute con l’azienda l’organizzazione del lavoro, gli orari, gli straordinari, le ferie ”dice Gianni Alioti, responsabile per le relazioni internazionali della Fim-Cisl ”. Il paese rientra tra quelle che noi definiamo le aree franche». In altre parole le zone dove un grande gruppo in genere non si trova la strada sbarrata dalle rivendicazioni dei rappresentanti dei lavoratori. Pur avendo avuto in passato un sindacato molto popolare e forte, Solidarnosc, oggi anche la Polonia ha rappresentanti dei lavoratori molto concilianti «anche perché ci sono realtà dove oltre il 90% della forza lavoro ha un contratto a tempo determinato e c’è un uso molto forte dei contratti di somministrazione », continua sempre Alioti. Ma non è quella della Polonia la massima flessibilità. Piuttosto è quella dei «contratti individuali molto diffusi in Brasile dove sulla linea si trovano operai con una sorta di partita iva, con cui è dunque possibile sciogliere il rapporto molto facilmente », aggiunge Alioti.
Gli Stati Uniti sono invece un paese dal duplice volto. Se nelle fabbriche dei grandi produttori americani, da Chrysler a General motors, impera lo Uaw (United auto workers), in quelle dei produttori giapponesi non esiste una vera e propria rappresentanza e difficilmente potrà mai esserci. «Le regole prevedono infatti che se un’azienda non è sindacalizzata bisogna organizzare un sindacato dall’esterno e poi fare un referendum tra i lavoratori – spiega Alioti ”. Solo se il sindacato riesce ad ottenere il 50% più uno di voti può entrare in fabbrica. Per questo molte aziende sono union freee poi non dimentichiamo la storica campagna del sindacato americano all’insegna del buy american che non ha certo invogliato gli operai americani della Toyota a sindacalizzarsi».