Marco Ludovico, ཿIl Sole-24 Ore 13/5/2009;, 13 maggio 2009
MESSAGGIO A BRUXELLES CON TANTE INCOGNITE
Salvaguardare in ogni caso il diritto d’asilo o riportare comunque gli immigrati clandestini là dove sono partiti. Il dibattito sulle operazioni svolte finora dall’Italia si divide su queste direttrici.
Molti sono pronti a giurare sulla correttezza giuridica dei cosiddetti respingimenti. In uno dei casi in questione, il soccorso è stato richiesto da un nave libica per un’imbarcazione di disperati in balìa delle onde in acque internazionali. L’unità della Marina militare italiana è intervenuta prestando soccorso e riportando, come da richiesta libica, i naufraghi nel Paese da cui erano partiti. Sotto il profilo del rispetto delle regole internazionali, dunque, secondo alcune fonti qualificate «non si potrebbe parlare neanche di respingimento, operazione che avviene in acque territoriali durante un pattugliamento ». In realtà il rispetto del diritto d’asilo rimane la grande incognita della vicenda e se più di una voce – come il presidente della Camera, Gianfranco Fini – si è levata a chiederne la tutela, il sospetto di una forzatura indebita è fondato. Perché i respingimenti di massa sono vietati e non sarebbe stata concessa alcuna possibilità di fare richiesta d’asilo a chi ne avrebbe avuto diritto.
Il principio da tutelare è quello del non refoulement,
sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, che vieta agli stati di espellere o respingere un rifugiato verso le frontiere di territori dove la sua vita o la sua libertà siano minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.
Riportare clandestini in Libia, dunque, significa consegnarli a uno Stato dove la democrazia e il rispetto dei diritti umani non sono certo al centro dei valori politici e sociali.
Così si giustificano anche le numerose proposte, come quella del ministro della Difesa Ignazio La Russa, di istituire in Libia centri per la richiesta di asilo. Idee che hanno comunque bisogno di non poco tempo per essere realizzate. Nel frattempo i respingimenti continueranno, come ha confermato il ministro Maroni.
Già il ministro Beppe Pisanu riuscì, quando era all’Interno, a rinviare in Libia diverse centinaia di clandestini sbarcati a Lampedusa. Ma l’operazione avvenne non in mare: si ricorse a diversi voli di rimpatrio. Anche in quel caso comunque ci furono molte proteste delle organizzazioni umanitarie e in particolare dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Pisanu si fermò.
Sulle recenti mosse di Maroni, in realtà, c’è una lettura più ampia che spiega bene il senso delle ultime scelte, quasi al limite, del Viminale.
Bisogna tornare al caso recente della nave Pinar. L’Interno si è esposto alle invettive internazionali aspettando più giorni prima di portare soccorso alla nave turca con 150 disperati. Ma così ha sollevato il problema, in sede europea, dei ruoli e degli impegni italiani e maltesi. Allo stesso modo, Maroni era certo consapevole delle proteste che sarebbero giunte dall’Unhcr con i respingimenti in Libia.
Ma, al netto del consenso politico rinforzato con l’elettorato leghista, c’è un altro segnale molto chiaro del Viminale all’Europa: raggiunte le intese con la Libia, sappiate che possiamo agire da soli, visto che siamo costretti a farlo e l’Unione continua a essere latitante; non possiamo però garantire sempre le richieste d’asilo. Bruxelles non potrà far finta di niente, anche per non apparire immobile di fronte alla salvaguarda dei diritti umanitari.