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 2009  maggio 14 Giovedì calendario

Si apre la XXII Fiera del libro a Torino. Gian Arturo Ferrari è il direttore generale della divisione libri della Mondadori, il primo gruppo editoriale italiano

Si apre la XXII Fiera del libro a Torino. Gian Arturo Ferrari è il direttore generale della divisione libri della Mondadori, il primo gruppo editoriale italiano. Parliamo con lui di libri e crisi, del rapporto che esiste tra il racconto libresco, tra il materiale prodotto ogni giorno da una casa editrice - una grande industria culturale - e la realtà circostante, in questo caso la Grande Recessione. In che modo i libri la stanno raccontando? Fino a che punto riescono a riprodurre con precisione quello che accade intorno a loro? Dice: «C’è stata una crisi finanziaria molto violenta, in una certa misura prevedibile. La cosa migliore l’ha detta la regina Elisabetta: "ma non se n’era accorto nessuno?". Ci sono stati offerti ben tre libri sugli hedge funds che dovevano descrivere quello che è successo. Ma che cosa è successo davvero? Forse qualcosa di simile a quel che racconta John Kenneth Galbraith ne Il grande crollo. C’era un meraviglioso condominio sul mare della Florida e c’era un signore che voleva vendere il suo appartamento, così cominciò il 1929, dalla vendita di un appartamento. Mi sembra, però, che la crisi attuale non abbia a che fare con un cambiamento di civiltà. solo una grande crisi finanziaria. Devo dire, però, che diffido sempre delle visioni secondo le quali siamo sempre sul limite di un rivolgimento globale. Mi pare che siamo in una fase in cui la storia umana procede con il suo passo». Poniamo a Ferrari una questione che spunta ogni tanto a proposito di letteratura e realtà, e cioè se non si senta - almeno da noi - la mancanza di un Tom Wolfe, di uno che prenda la sua porzione di universo (con i suoi signori) in crisi e ce la racconti. Ferrari che disapprova - ancorché bonariamente - la tendenza dell’interlocutore a indulgere per i temi che mirano a una certa astrattezza d’orizzonte, risponde che «gli scrittori italiani non sono mai stati capaci di raccontare l’Italia. Ma questo non ha a che fare con la crisi globale, ovviamente». Dice: «Una mia amica americana viene in Italia non solo perché le piace l’Italia e ci sta bene, ma anche perché, sostiene, vuole capire che cosa succede da noi. E siccome non si fida di quello che legge sull’Italia, soprattutto se a scrivere sono gli italiani, viene direttamente a passare un po’ di tempo nel nostro paese». Perché gli italiani non sanno raccontare il loro tempo? « una storia vecchia. Ci è mancato il processo di formazione unitaria. Perché non c’è senso identitario, e non c’è - salvo casi eccezionali - letteratura nazionale. Non c’è Saul Bellow, non c’è Philip Roth. Forse un libro nazionale è "Quer pasticciaccio brutto"». E la generazione degli scrittori tra i trenta e i quaranta, Alessandro Piperno, Roberto Saviano? «Sì, Piperno che pure tende a raccontare di sé ha qualcosa dello scrittore generalista; Saviano è totalmente identificato con quello che fa, ma è un narratore e un letterato». C’è un’altra questione interessante. In che modo la letteratura o il cinema devono rielaborare in senso realista quello che si intravede di un processo storico contemporaneo? Perché per esempio nessuno riesce davvero a raccontare un fenomeno complesso e fuori dall’ordinario come Silvio Berlusconi? Qualcuno osserva che solo Nanni Moretti sia riuscito ad accennare per una breve scena alla plasticità berlusconiana circondato dalle majorette nel Caimano (che però in realtà non è un film su Berlusconi, ma sull’ossessione per Berlusconi). Ferrari giudica con molto scetticismo questo tema: «I protagonisti della storia non vengono mai raccontati dalla letteratura in presa diretta. Non ci sono mai i grandi personaggi storici nel grande romanzo. Il caso di Napoleone è esemplare. Con l’eccezione di "Guerra e Pace" in cui Napoleone si intravede di passaggio prima della battaglia di Austerlitz e dei "Miserabili" in cui si vede a Waterloo, gli scrittori suoi contemporanei non lo mettono in scena. E Lev Tolstoj e Victor Hugo scrivono molto tempo dopo la morte dell’imperatore. In questo secolo vale la stessa regola. Non mi sembra di aver letto dei romanzi su Konrad Adenauer, o con la presenza in scena di Charles De Gaulle o di Alcide De Gasperi». Però il cinema inglese ha raccontato Margaret Thatcher, e John F. Kennedy fa quasi parte della scenografia nel cinema americano. «Kennedy è un caso generazionale direi, perché fa parte di una fase della letteratura americana, ma non è la regola. Ciò detto, però c’è un elemento interessante tornando a Berlusconi. La complessità del fenomeno che ha rappresentato ha così sorpreso la cultura italiana, da trasformarsi in una lamentazione perenne per il fatto di non averlo capito. Tutta l’immagine del potere politico è cambiata. Quando ero un ragazzo e compariva all’orizzonte un senatore, era un uomo vestito di scuro e gli si dava dell’eccellenza. Oggi è tutto diverso. Basta vedere i manifesti delle europee: per il progresso dell’Europa, vota Tal dei Tali. Tutto viene personalizzato, perché si pensa così di estrarre il segreto del successo berlusconiano. Ma non è affatto detto che debba essere la letteratura a tradurre in apparato narrativo la politica, la storia, il potere». A proposito di libri e potere, si aspettava il successo dell’ultimo libro di Giulio Tremonti? «Di solito non ho il contatto diretto con l’autore. Con Tremonti c’è stato. All’inizio quando me ne parlò non avevo idea di quello che sarebbe accaduto. Quando vidi la prima versione invece mi resi conto che poteva diventare un successo. E ci demmo da fare per chiudere in fretta. Ma non potevo immaginare che sarebbe diventato una pietra del dibattito politico o che vendesse così tanto. La cosa interessante de "La paura e la speranza" è che arrivasse da un politico di centrodestra. Fino a ieri l’idea vigente è che vendessero solo i politici di sinistra, perché i quattro milioni di lettori italiani sono tendenzialmente di sinistra (adesso sono curioso, infatti, di vedere che cosa succede al libro di Renato Brunetta)». Del resto, c’è chi crede che un pezzo di sinistra italiana avrebbe voluto scrivere un libro come quello di Tremonti - tendenzialmente apocalittico, critico nei confronti della contaminazione tra metodo post-comunista e liberismo - e che quello stesso pezzo di sinistra lo abbia invidiato per questo. «Non so se sia stato invidiato a sinistra. Di sicuro mi ha colpito la polemica a distanza con Francesco Giavazzi e il fatto che mentre esce il libro di Tremonti, lucidissimo nella parte analitica della crisi e delle sue origini, Giavazzi scrive un editoriale sul Corriere della Sera in cui dice che la crisi è una cosa sotto controllo, circoscritta, niente di davvero preoccupante. La crisi dello strumento analitico degli economisti è stata la vera novità di questo anno e mezzo e qui torno alle fatali parole della regina Elisabetta». C’è un altro aspetto interessante. Tremonti è contemporaneamente un uomo di militanza intellettuale e anche il ministro dell’Economia della settima potenza industriale mondiale. A parte i recenti libri da campagna elettorale di Obama e Sarkozy, le vengono in mente dei casi simili in altri paesi occidentali: politici che indirizzano il dibattito pubblico con un libro? «Non ci sono casi paragonabili, per una ragione di carattere generale. La differenza tra gli altri paesi e l’Italia è che all’estero i politici in esercizio non scrivono libri. Lo fanno quando sono a riposo: allora raccontano la loro storia e raccontano la verità, o quella parte di verità che possono raccontare. Siccome in Italia i politici sono in servizio permanente effettivo, scrivono durante la carriera e non lasciano testimonianze. Non lasciano memorie ponderose come Winston Churchill, il quale, peraltro, per tutta la vita scrisse per denaro. Da noi, non ci sono memorie di Alcide De Gasperi, né di Palmiro Togliatti. Aldo Moro ha scritto per necessità. Non mi risulta che Giulio Andreotti lo stia facendo. Quando sono in attività i nostri politici scrivono un po’ per bisogno di soggettività, un po’ per un fatto di diffidenza nei confronti dei giornali, dei media. All’estero c’è una sola eccezione di politico in attività che scrive una storia per ragioni politiche. John F. Kennedy, il quale scrive un "Ritratti del coraggio" su alcuni eroi americani per costruirsi un Pantheon del quale lui stesso aspira a far parte. Ma l’America è un altro paese. Del resto basta vedere come lo stesso Kennedy viene trattato da James Ellroy in "American Tabloid" (e qui torniamo al rapporto tra potere e verità)». A parte Tremonti, ci sono altri casi di libri scritti da politici che abbiano avuto un impatto sul dibattito pubblico? «Forse l’unico caso che io ricordi fu quello di Massimo D’Alema con "Un paese normale", titolo poi diventato quasi un modo di dire. Quello fu un libro che segnò una stagione politica». MARCO FERRANTE