George F. Will, Washington Post, Thursday, April 16, 2009, 12 maggio 2009
Demon Denim By George F. Will On any American street, or in any airport or mall, you see the same sad tableau: A 10-year-old boy is walking with his father, whose development was evidently arrested when he was that age, judging by his clothes
Demon Denim By George F. Will On any American street, or in any airport or mall, you see the same sad tableau: A 10-year-old boy is walking with his father, whose development was evidently arrested when he was that age, judging by his clothes. Father and son are dressed identically -- running shoes, T-shirts. And jeans, always jeans. If mother is there, she, too, is draped in denim. Writer Daniel Akst has noticed and has had a constructive conniption. He should be given the Presidential Medal of Freedom. He has earned it by identifying an obnoxious misuse of freedom. Writing in the Wall Street Journal, he has denounced denim, summoning Americans to soul-searching and repentance about the plague of that ubiquitous fabric, which is symptomatic of deep disorders in the national psyche. It is, he says, a manifestation of "the modern trend toward undifferentiated dressing, in which we all strive to look equally shabby." Denim reflects "our most nostalgic and destructive agrarian longings -- the ones that prompted all those exurban McMansions now sliding off their manicured lawns and into foreclosure." Jeans come prewashed and acid-treated to make them look like what they are not -- authentic work clothes for horny-handed sons of toil and the soil. Denim on the bourgeoisie is, Akst says, the wardrobe equivalent of driving a Hummer to a Whole Foods store -- discordant. Long ago, when James Dean and Marlon Brando wore it, denim was, Akst says, "a symbol of youthful defiance." Today, Silicon Valley billionaires are rebels without causes beyond poses, wearing jeans when introducing new products. Akst’s summa contra denim is grand as far as it goes, but it only scratches the surface of this blight on Americans’ surfaces. Denim is the infantile uniform of a nation in which entertainment frequently features childlike adults ("Seinfeld," "Two and a Half Men") and cartoons for adults ("King of the Hill"). Seventy-five percent of American "gamers" -- people who play video games -- are older than 18 and nevertheless are allowed to vote. In their undifferentiated dress, children and their childish parents become undifferentiated audiences for juvenilized movies (the six -- so far -- "Batman" adventures and "Indiana Jones and the Credit-Default Swaps," coming soon to a cineplex near you). Denim is the clerical vestment for the priesthood of all believers in democracy’s catechism of leveling -- thou shalt not dress better than society’s most slovenly. To do so would be to commit the sin of lookism -- of believing that appearance matters. That heresy leads to denying the universal appropriateness of everything, and then to the elitist assertion that there is good and bad taste. Denim is the carefully calculated costume of people eager to communicate indifference to appearances. But the appearances that people choose to present in public are cues from which we make inferences about their maturity and respect for those to whom they are presenting themselves. Do not blame Levi Strauss for the misuse of Levi’s. When the Gold Rush began, Strauss moved to San Francisco planning to sell strong fabric for the 49ers’ tents and wagon covers. Eventually, however, he made tough pants, reinforced by copper rivets, for the tough men who knelt on the muddy, stony banks of Northern California creeks, panning for gold. Today it is silly for Americans whose closest approximation of physical labor consists of loading their bags of clubs into golf carts to go around in public dressed for driving steers up the Chisholm Trail to the railhead in Abilene. This is not complicated. For men, sartorial good taste can be reduced to one rule: If Fred Astaire would not have worn it, don’t wear it. For women, substitute Grace Kelly. Edmund Burke -- what he would have thought of the denimization of America can be inferred from his lament that the French Revolution assaulted "the decent drapery of life"; it is a straight line from the fall of the Bastille to the rise of denim -- said: "To make us love our country, our country ought to be lovely." Ours would be much more so if supposed grown-ups would heed St. Paul’s first letter to the Corinthians, and St. Barack’s inaugural sermon to the Americans, by putting away childish things, starting with denim. (A confession: The author owns one pair of jeans. Wore them once. Had to. Such was the dress code for former senator Jack Danforth’s 70th birthday party, where Jerry Jeff Walker sang his classic "Up Against the Wall, Redneck Mother." Music for a jeans-wearing crowd.) *** Il demone jeans In ogni strada Americana, o in ogni aeroporto o centro commerciale, si può vedere lo stesso triste panorama: un bambino di 10 anni che sta camminando con suo padre, il cui sviluppo si deve essere evidentemente arrestato alla stessa età, giudicando i suoi vestiti. Padre e figlio sono vestiti allo stesso modo – scarpe da ginnastica, T-shirts. E jeans, sempre e solo jeans. Se ci fosse anche la madre, anche lei indosserebbe i jeans. Daniel Akst lo ha notato e ha fatto un attacco costruttivo. Bisognerebbe dargli la Medaglia Presidenziale della Libertà. Se l’è guadagnata identificando un odioso abuso di libertà. Dalle pagine del Wall Street Journal, ha denunciato il jeans, ammonendo gli Americani a ricercare un pentimento riguardo la piaga di quel tessuto ubiquo, sintomatico dei disordini profondi della psiche nazionale. E’, ha detto, una manifestazione della ”tendenza moderna verso un indifferenziato modo di vestirsi, con il quale tutti miriamo a sembrare ugualmente sciatti”. Il jeans è ”sintomo di un infantilismo nostalgico per un passato agrario che si traduce nella corsa a quelle casette di lontano sobborgo oggi avviate verso l’abisso dei mutui non pagati”. I jeans vengono pre-lavati e trattati con l’acido per renderli ciò che non sono – autentici abiti da lavoro per i figli della terra con le mani callose. Il jeans, addosso alla borghesia, è – dice Akst, come guidare un Hummer al supermercato biologico - discordante. Tempo fa, quando James Dean e Marlon Brando lo indossavano, il denim era, dice Asks, ”un simbolo della rivolta giovanile”. Oggi, i multimilionari della Silicon Valley sono ribelli senza causa, indossando jeans quando presentano prodotti nuovi. La summa di Akst contro il jeans è grandiosa tanto quanto estrema, ma graffia solamente la superficie di questa ruggine americana. Il jeans è l’uniforme infantile di una nazione nella quale il divertimento spesso assume le sembianze di adulti bambini (Seinfeld, Two and a Half Men) e cartoni per adulti (King of the Hill). Il 75% dei ”gamers” Americani – persone che giocano ai video games – hanno più di 18 anni e tuttavia possono votare. Nei loro vestiti indifferenziati, i bambini e i loro genitori ”bambini” diventano un pubblico indifferenziato per i film giovanilisti (le sei – per ora – avventure di ”Batman” e di ”Indiana Jones” diventano preso un successo cinematografico). Il jeans è il paramento clericale di tutti coloro che credono nel catechismo di uguaglianza della democrazia – non vestire meglio della società più sciatta. Per fare questo bisognerebbe commettere il peccato di ”lookismo” – di credere cioè all’apparenza. Questa eresia conduce a negare l’adeguatezza universale di ogni cosa, e poi all’affermazione elitaria che c’è un buono e cattivo gusto. Il jeans è il costume calcolato delle persone ansiose di comunicare indifferenza verso l’apparenza. Ma l’apparenza che le persone scelgono in pubblico è un segnale dal quale deduciamo la loro maturità e rispetto per quelli a cui presentano se stessi. Non colpevolizziamo Levi Strauss per l’abuso dei Levi’s. Quando la corsa all’oro iniziò, Strauss si trasferì a San Francisco con l’intenzione di vendere quel tessuto resistente per le tende e per i carri. Alle fine, comunque, fece pantaloni resistenti, rinforzati da bottoni di rame, per uomini duri che si inginocchiavano nel fango, sugli argini rocciosi dei torrenti della California del Nord, alla ricerca dell’oro. Oggi è stupido per gli Americani per i quali l’approssimazione più vicina al lavoro fisico consiste nel caricare le loro sacche da golf sul cart e andare in giro in pubblico vestiti come per guidare il Chisholm Trail lungo la ferrovia in Abilene. Non è complicato. Per gli uomini, il buon gusto sartoriale può essere ridotto a un solo ruolo: se Fred Astaire non l’avesse voluto indossare, non l’avrebbe indossato. Per le donne, sostituite con Grace Kelly. Edmund Burke – ciò che pensava della ”denimizzazione” dell’America può essere dedotto dalla sua asserzione che la Rivoluzione Francese aggredì ”il drappo rispettabile della vita”; è una linea dritta dalla caduta della Bastiglia all’ascesa del jeans – disse: ”Per amare il nostro paese, il nostro paese deve essere amabile”. I nostri sarebbero più di così se si fosse dato ascolto alla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, e al sermone inaugurale di San Barack agli Americani, buttando via le cose infantili, a partire dal jeans. (Una confessione: l’autore possiede un solo paio di jeans. Indossati una sola volta. Costretto. Era il dress code per il settantesimo compleanno del primo senatore Jack Danforth, dove Jerry Jeff Wlaker cantò il suo classico ”Up Against the Wall, Redneck Mother” (Contro il muro, madre sudista, ndr). Musica per la folla che indossa jeans.) N.B. Traduzione da prendere con la dovuta cautela.