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 2008  luglio 08 Martedì calendario

Anno 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Migranti 2.782 5.504 18.225 14.017 13.594 22

Anno 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Migranti 2.782 5.504 18.225 14.017 13.594 22.824 21.400 20.165 Ferrruccio Pastore* Il 27 giugno, Silvio Berlusconi ha effettuato la prima visita ufficiale di questo suo terzo mandato governativo. Dove? A Washington? Mosca? Pechino? Sbagliato! La destinazione è stata Sirte, per il suo quinto incontro al vertice con il Colonnello Gheddafi, che l’anno prossimo festeggia i suoi quarant’anni al potere. Purtroppo, i media italiani si sono dimostrati più curiosi dell’abbigliamento dei due uomini politici, che dei contenuti del loro colloquio. E’ un peccato, perché le relazioni italo-libiche sono importanti da tanti punti di vista. Petrolio e gas a parte, sono un laboratorio decisivo per la gestione delle migrazioni dall’Africa verso l’Europa. Cerchiamo, dunque, di ricostruirne il contesto e alcuni nodi problematici. Un nuovo accordo, ma gli sbarchi continuano A fine dicembre 2007, il ministro dell’Interno italiano, Giuliano Amato, e il suo omologo libico, Abdurrahman Shalgam, firmavano a Tripoli un’intesa in materia di controllo delle migrazioni irregolari. Si chiudeva così un anno di sviluppi importanti nelle relazioni italo-libiche. A ottobre, ENI si era assicurata il rinnovo delle concessioni per 25 anni (20 miliardi di euro di investimenti programmati per i prossimi 10 anni). A novembre, il ministro D’Alema aveva raggiunto con il capo della Jamahiriyya un accordo per la compensazione dei danni coloniali, imperniato sull’impegno italiano a costruire un’autostrada lungo tutto il litorale libico, per un costo stimato di almeno 3 miliardi di euro. Sebbene meno spettacolare degli altri due accordi citati, anche l’intesa di dicembre sulle migrazioni aveva suscitato grandi attese. A partire dal 2000, sono stati numerosi i testi sottoscritti dai due esecutivi in materia migratoria. Se si guarda all’indicatore più ovvio, ossia il numero di migranti sbarcati in Sicilia, questa sequela di accordi non ha prodotto grandi risultati. Il flusso di migranti irregolari e di rifugiati giunti in Sicilia irregolarmente ha infatti conosciuto un trend bruscamente crescente fino al 2002, una flessione nei due anni successivi, per poi subire una nuova impennata nel 2005 e rimanere su livelli elevati e sostanzialmente stabili fino al 2007 L’accordo di dicembre 2007 aveva suscitato notevole interesse, anche in sede Ue, in virtù della importante novità tecnica (e simbolica) che esso contiene, ossia l’assenso da parte di Tripoli al pattugliamento congiunto delle acque territoriali libiche. Ma ad oggi, nella prospettiva delle autorità italiane, i risultati sono ancora una volta deludenti: gli sbarchi in Sicilia (inclusi i salvataggi in mare, anche all’interno della Search and Rescue Area libica, seguiti da trasferimento in territorio italiano) sono incredibilmente balzati dai 2.087 dei primi cinque mesi del 2007, ai 7.077 del periodo corrispondente di quest’anno! Come si spiega l’impasse? Esistono almeno tre livelli di risposta che vanno considerati. In primo luogo, esistono spiegazioni di ordine contingente, legate alla situazione all’interno dell’amministrazione libica. Negli ultimi mesi, è stata infatti decisa una riorganizzazione del settore, con il trasferimento delle competenze sul controllo dell’operato della Guardia costiera libica, dal ministero dell’Interno alla Marina militare. Al di là dei ritardi che genera, questo riassetto – che riflette spostamenti di equilibri politici difficili da decifrare all’interno del regime – potrebbe creare anche problemi tecnici. In effetti, l’accordo di dicembre era stato modellato sulle caratteristiche del ministero dell’Interno quale implementing partner sul versante libico. Non è detto che la Marina militare, che ovviamente non dispone di una presenza capillare a terra, sia in grado di applicare l’accordo in maniera appropriata ed efficace. Un secondo livello di spiegazione è più profondo, di ordine culturale. Dietro la facciata di un complesso quanto vuoto meccanismo rappresentativo, persistono in Libia modalità di esercizio del potere e di assunzione delle decisioni ancora permeate di uno stile tradizionale. Quello che un funzionario internazionale di stanza da alcuni anni a Tripoli ha definito ”nomadic decision-making style”. Con questa formula, si vuole indicare uno stile decisionale estemporaneo e sommamente flessibile, difficile da conciliare con una cultura amministrativa e di governo impregnata dei principi di pianificazione e formalizzazione delle intese, come quella che domina in Europa. Vi sono sempre grossi rischi nel ricorrere a categorie culturali per spiegare sviluppi politici. E’ un fatto, però, che tutti gli osservatori di più lungo corso sottolineano che, tra Libia ed Europa, permane un abisso di incomprensione, generato da fattori lato sensu culturali. D’altra parte, anche tra i libici, non manca chi denuncia i limiti dell’impersonalità e delle rigidezze del decision-making europeo. Due paesi di immigrazione riluttanti Tutto questo rischia però di lasciare in ombra il fattore decisivo del sostanziale stallo nelle relazioni italo-libiche (e, di conseguenza, euro-libiche) in materia migratoria. Si tratta di un fattore di ordine squisitamente politico, o meglio geopolitico. Con una popolazione che supera a stento i sei milioni e una presenza immigrata di entità sconosciuta, ma stimata – a seconda delle fonti – tra uno e due milioni, la Libia è oggettivamente un grande paese di immigrazione. Questo peraltro non deve sorprendere, per un paese tanto ricco dal punto di vista minerario quanto povero da quello demografico. Nel Nord Africa, così come nel Golfo Persico o in Asia centrale, l’abbinamento petrolio-deserto produce quasi automaticamente la necessità di importare manodopera. La popolazione immigrata in Libia è il frutto di una stratificazione ormai decennale. Alle prime ondate provenienti dai paesi arabi più vicini (Egitto, in primis), si sono aggiunte correnti successive, in arrivo dall’Asia (Filippine, India), dall’Europa orientale (Ucraina) e soprattutto dall’Africa sub-sahariana. Quest’ultimo flusso ha conosciuto una decisa crescita dalla metà degli anni Novanta, a causa di un mix di fattori di spinta (moltiplicarsi dei conflitti nella fascia saheliana, nel Golfo di Guinea e nel Corno) e di pull factors specifici. Tra questi ultimi, spicca la spettacolare conversione, da parte del leader libico, a una strategia panafricanista, accompagnata da clamorosi e reiterati inviti ai ”fratelli africani” a venire a lavorare sul suolo libico. Ben presto, il sostanzioso flusso migratorio da sud ha generato reazioni negative nella società libica. Tristemente noti sono i fatti dell’autunno 2000, quando diverse decine di lavoratori immigrati africani furono uccisi dalla folla, nel corso di tumulti concentrati nella città di Az-Zawiyah. Questo terribile episodio, unito a una crescita del tasso di disoccupazione tra gli autoctoni, ha indotto i primi ripensamenti dell’apertura indiscriminata all’immigrazione sub-sahariana. L’intensificazione, grossomodo contemporanea, della pressione italiana ed europea sulla Libia, affinché questa rinforzasse i controlli in uscita e gli sforzi di controllo, ha offerto al regime libico una ragione aggiuntiva per rovesciare, nei fatti, la politica di apertura preesistente. Nei primi anni di questo decennio, le strategie negoziali italiane si sono basate su una comprensione inadeguata del contesto migratorio africano, libico in particolare. Rimane emblematica una dichiarazione fatta nel luglio 2004 dal ministro dell’Interno dell’epoca, Giuseppe Pisanu, secondo cui ”due milioni di disperati stanno attendendo in Libia di attraversare clandestinamente il Mediterraneo e venire in Europa”. L’errata interpretazione della condizione della popolazione straniera in Libia - vista come una presenza transitoria, interamente generata dall’attrazione esercitata dall’Italia e dall’Europa - non poteva che convenire alla Libia, che aveva tutto l’interesse a scaricare qualsiasi specifica responsabilità verso quella stessa popolazione migrante. Ora finalmente, sembra farsi strada, da parte italiana, una visione più corretta della situazione migratoria del nostro dirimpettaio nordafricano. Quella della Libia come ”paese di immigrazione”, che come tale dovrebbe assumere maggiori e più dirette responsabilità ai fini della elaborazione di una politica strutturata e sostenibile, fatta non solo di controlli ed espulsioni. Da parte loro, le autorità libiche tengono un discorso a due livelli. Il Leader continua a elargire una robusta retorica panafricanista. A livello interno, però, tutti, dai ministri fino all’ultimo funzionario propagano un discorso che identifica nella presenza straniera (sub-sahariana in particolare) la radice di ogni problema della Libia contemporanea, dalla disoccupazione alle droghe, dalla prostituzione al terrorismo. Inoltre, nel discorso ufficiale, l’immigrazione è sempre sistematicamente presentata esclusivamente come un flusso di transito, generato da un lato dal sottosviluppo africano e dall’altro dal magnete delle economie sommerse europee. Insomma, la responsabilità è europea, sia a monte sia a valle. La strumentalizzazione è evidente. Ma non bisogna ignorare che, oltre che da radicati pregiudizi, questa visione libica è ispirata anche dal timore di trovarsi schiacciati in un ruolo di buffer state, senza difese verso una ”invasione” da sud e privo di sbocchi migratori verso nord. Oltre lo ”scaricabarile”? Questo ”conflitto di interpretazioni” da parte di due paesi di immigrazione, entrambi riluttanti ad accogliere e integrare flussi migratori dall’Africa, rischia di tradursi – come in parte è già avvenuto in passato – in uno ”scaricabarile” continuo, in uno sterile rimpallo di responsabilità storiche, politiche ed economiche, in una cooperazione di facciata il cui unico effetto concreto sembra essere lo stillicidio degli sbarchi e delle morti in mare. A lungo termine, un esito simile non è interesse di nessuna delle parti in causa. Tanto la Libia quanto l’Italia, ma più in generale l’Europa, sono aree di immigrazione, che condivideranno un forte bisogno di lavoro straniero nei decenni a venire. Comprendere e accettare questo fatto, ponendolo alla base di qualsiasi relazione, bilaterale e multilaterale, è una condizione essenziale affinché la cooperazione italo-libica superi una stagione prevalentemente declaratoria e centrata solo sulla dimensione repressiva, ed entri in una fase più equilibrata, efficace e sostenibile. Questo significa esigere da Tripoli il rispetto di standard chiari e progressivamente crescenti in materia di trattamento di migranti e rifugiati, fornendo nel contempo alle autorità libiche gli incentivi, il training e la strumentazione necessari per adeguarsi a tali standard. Ma significa anche riconoscere la fondatezza di alcune preoccupazioni libiche, per esempio quelle relative ai flussi migratori forzati originati, in un passato recente e in un futuro probabile, dai numerosi focolai di crisi distribuiti lungo la cintura saheliana. Una cooperazione euro-libica strategicamente più lungimirante in materia migratoria dovrebbe dunque collocarsi organicamente all’interno di una strategia di stabilizzazione e sviluppo della regione saheliana, necessaria in sé, ma utile anche a rassicurare i partner nord-africani. Passare dalla fase della cooperazione di facciata e dello scaricabarile alla costruzione di una partnership strategica significa anche rendersi conto delle debolezze strutturali della società e dell’economica libica, eccessivamente dipendente da export energetico e importazione di quasi tutto il resto, lavoro compreso. Queste debolezze strutturali rischiano di compromettere, a lungo termine, anche gli interessi italiani ed europei: una simile consapevolezza dovrebbe ispirare un ripensamento radicale della cooperazione economica italiana ed europea in Libia. Il primo passo potrebbe essere quello di analizzare insieme possibili alternative al ”dono di compensazione” dell’autostrada costiera, la cui rilevanza strategica per il futuro della Libia è perlomeno da approfondire. *Vicedirettore, Centro Studi di Politica Internazionale (www.cespi.it).