Varie, 11 maggio 2009
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Zinni Fortunato
• Roccascalegna (Chieti) 7 settembre 1940 • «’Un lampo. E un boato fortissimo, come quelli che da bambino sentivo nel mio Abruzzo attraversato dalla guerra. Un vento rovente sbriciola la vetrata su cui sto appoggiato e mi scaraventa a terra. Provo a guardarmi intorno, inutilmente, perché di colpo è calato il buio. Mi affaccio dal mezzanino, ma non distinguo quasi nulla nel salone sotto: è un cratere fumante da dove sale una nuvola che toglie il respiro. Quando, trascinato da altri impiegati, scendo al pianoterra, sono un automa incosciente. Sento qualcuno che piange e, per assurdo che sembri, un telefono che suona. Per un riflesso condizionato, alzo la cornetta. ’Qui è la questura’, dice una voce. ’ scattato il vostro allarme. Che succe de?’. Già, cosa è successo?, mi chiedo. Poi mi accorgo che vicino a me c’è un braccio troncato e vedo corpi maciullati che bruciano e feriti san guinanti che strisciano. C’è un odore di gas acido che mi fa pensare ai tempi dell’infanzia e rispondo, urlando: una bomba, c’è stata una bomba”. Fortunato Zinni, è la prima persona che il 12 dicembre 1969 pronuncia la parola ”bomba” in piazza Fontana, mentre il commissario Vittoria gli tappa la bocca e la Questura tenta di accreditare la tesi minimizzatrice dell’esplosione di una caldaia, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. uno dei sopravvissuti della strage costata 17 morti e 86 feriti. Ed è vivo per miracolo, perché quel giorno ave va appena lasciato un paio di clienti, Gerolamo Papetti e Paolo Gerli, impegnati a discutere intorno al grande tavolo sotto il quale era stata deposta una valigetta carica di 7 chili di gelignite collegati a un timer. Deposta da un uomo che aveva osservato le sue vittime e sentito le loro voci nell’imminenza del massacro. Dopo di che era sparito. Racconta Zinni: ”Avevo 28 anni, ero membro della commissione interna e c’era una nota sindacale da revisionare. Ecco perché, poco prima del le 16.37, ora dello scoppio, mi avevano convocato al piano superiore. stato questo a salvarmi, altrimenti sarei stato annientato anch’io. Ma da allora sono spezzato in due proprio come si è divisa in due la nostra storia. Ho un tarlo dentro. Covo rabbia perché, secondo la giustizia, quel venerdì [...] non è accaduto nulla, a Milano. Infatti non ci sono colpevoli, solo vittime”. Quando parla di piazza Fontana, Zinni sa di cosa parla. Impegnato da socialista sul fronte di sindacato e politica ([...] sindaco di Bresso), dopo un’estenuante battaglia giudiziaria e una personale indagine sulle carte di 11 inutili processi condensata nel libro Nessuno è Stato, non accetta che cali il sipario sulla ”madre di tutte le stragi”. Quella che inaugurò la strategia della tensione – creare disordine per rafforzare un ”ordine nuovo” – e innescò una catena di orrori. Cioè ”la guerra tra la folla” che si vide a piazza della Loggia, a Brescia, e alla stazione di Bologna. Per non dire della scelta delle armi, impugnate da rossi e neri, scattata anche per reazione a quella bomba. ”Tirava un’aria pesante, nell’Italia di allora. Autunno caldo e lotte sindacali, contestazione studentesca e ansie autoritarie che covavano ipotesi golpiste. In un anno 145 attentati. Dopo la quarta commemorazione, scen endo dal palco fui avvicinato da uno sconosciuto: era il giudice Emilio Alessandrini. Cominciammo a frequentarci. Discutendo con lui e, qualche anno più tardi, con un cronista che aveva abitato a Bresso e di cui ero amico, Walter Tobagi, mi rafforzai nella convinzione dell’innocenza del ”mostro’ Valpreda e dell’assurdità della pista anarchica che aveva portato alla morte di Pinelli, definito crudamente da qualcuno un ”danno collaterale’. Alessandrini, Tobagi: uccisi anche loro. Ricordo che quando aprimmo una sottoscrizione per i figli dei caduti, suggerii di estendere l’aiuto alle figlie di Pinelli e la proposta non passò per 8 voti. Questo il clima”. [...] Zinni fa la spola da un’aula all’altra, per decenni, finché riesce a far costituire i dipendenti della banca come parte civile contro gli imputati neofascisti. Ma anche dopo. ”Non c’è nulla più che seguire le udienze di un processo per rendersi conto di chi mente, così la strategia eversiva che aveva armato gli attentatori mi apparve subito chiarissima. E resto convin to che la verità storica è sepolta nei 500 mila documenti che giacciono ne gli archivi dei vari tribunali. Basta cercarla, purché si tolga il segreto di Stato a certi dossier finora coperti dal vincolo. Senza rassegnarsi al falli mento della giustizia”» (Marzio Breda, ”Corriere della Sera” 10/5/2009).