Lello Naso, ཿIl Sole-24 Ore 10/5/2009;, 10 maggio 2009
IL CALCIO IN FUORIGIOCO, AUTOGOL DA UN MILIARDO
Il cambio di governance della Lega italiana con la separazione della Serie A dalla B era ormai indifferibile. In tutta Europa il pallone si sta sgonfiando e il mondo del calcio è più preoccupato a contabilizzare debiti e minusvalenze che ad archiviare crescite di fatturato a ritmi esponenziali. Secondo gli analisti le perdite 2008 in Inghilterra, Italia e Spagna viaggiano verso il miliardo. Nel Regno Unito una commissione parlamentare d’indagine formata da rappresentanti di tutti i partiti ha appena terminato i suoi lavori. La conclusione è lapidaria: senza una profonda riforma, il sistema inglese rischia di collassare travolto dai debiti, 2,79 miliardi di euro, di cui 1,1 miliardi nei confronti dei proprietari stessi dei club. Solo il Manchester United campione d’Europa e d’Inghilterra in carica, la squadra dei record in piena corsa per bissare le vittorie in campionato e Champions League, mette a bilancio 960,3 milioni di euro di debiti.
La raccomandazione numero uno della commissione riguarda proprio la governance e il debito: la nuova Premier League dovrà dotarsi di un sistema di licenze e dovrà considerare il debito non in funzione dei proprietari pro tempore, ma delle capacità dei club stessi di generare reddito e utili. Tradotto: il sistema non può dipendere dagli umori e dalle ricchezze della famiglia americana Blazer, proprietaria (e creditrice) del Manchester United, del magnate russo Roman Abramovich, proprietario e creditore del Chelsea, degli sceicchi di Abu Dhabi, proprietari e creditori del Manchester City e via debitando. «Soprattutto - sono parole della commissione - in un momento in cui la recessione potrebbe condizionare la capacità patrimoniale dei proprietari dei club».
Eppure il sistema inglese è considerato il più solido, il meglio organizzato. La Premier ha una struttura esemplare di gestione e marketing, i club hanno stadi di proprietà che riempiono tutte le settimane (13,8 milioni di spettatori nel 2007-2008, il record di tutti i tempi per un campionato), le squadre trionfano nelle competizioni internazionali ( tre delle quattro semifinaliste della Champions- Arsenal, Chelsea e Manchester United - erano inglesi), gli introiti sono equilibrati e ben distribuiti tra diritti tv, botteghino, merchandising.
Le squadre, pur indebitate, sono al centro degli appetiti di gruppi internazionali, ultimo l’Arsenal conteso dall’americano Stan Kroenke e dall’anglo-uzbeko Alisher Usmanov. Che cosa non funziona, allora? Una sola cosa, ma grande come una montagna: i costi impazziti con gli acquisti folli dei calciatori e il pagamento d’ingaggi multimilionari. Negli ultimi dieci anni la Premier League è diventata la Mecca degli ingaggi, cui sono destinati il 65% dei 2,2 miliardi d’introiti delle società. Ma qualcosa, forse, sta cambiando: sei mesi fa il Manchester City offriva al Milan 110 milioni di euro per Kakà e oltre 100 (lordi) al calciatore per un ingaggio di cinque anni; oggi il Manchester United valuta se riscattare l’argentino Tevez per 22 milioni di euro, un prezzo giudicato esoso. Anche i ricchi cominciano a guardare il bilancio, come auspica la stessa commissione d’indagine parlamentare: «La licenza per partecipare ai campionati, come in Germania, dovrebbe essere concessa solo ai club che chiudono il bilancio in pareggio».
In Spagna, invece, nonostante la situazione disastrosa dei conti, si continua a parlare di acquisti e ingaggi. Dei debiti, i club sembrano preoccuparsi meno. Dovrebbero, perché i dati dei bilanci societari appena diffusi dipingono una situazione della Liga prefallimentare. L’anno scorso il debito complessivo dei club spagnoli ammontava a 3,5 miliardi di euro. In testa il Real Madrid (562 milioni) seguita da Atletico Madrid e Valencia. Poi il Barcellona, in testa alla classifica del campionato e in finale di Champions, con un debito di 439 milioni. A Madrid e dintorni, di austerity non si parla: il club, governato da un azionariato diffuso, dopo uno scandalo che ha azzerato i precedenti vertici, ha convocato un’assemblea straordinaria dei soci che riporterà alla presidenza il costruttore Florentino Perez, artefice del Real Madrid dei "Galacticos" (le grandi star come Zidane, Figo, Ronaldo, Beckham) e dell’esplosione della spesa.
Per vincere le elezioni Perez promette ancora grandi colpi: Kaka? Ibrahimovic? Cristiano Ronaldo? Ribery? Certo non a prezzi da saldo. Anche perché il debito non è in cima alle sue preoccupazioni. Ma se non contiene i costi, alla lunga anche al Real non basterà essere diventata la società più ricca del mondo (366 milioni di fatturato nel 2008). Se le merengues scialano, tutta la Liga è costretta a seguirla, con i costi che lievitano e le società che arrivano sull’orlo del fallimento. Soprattutto se, in un periodo di recessione, gli stadi non sono più così pieni, gli sponsor valutano con attenzione prima di mettere il loro nome sulla maglia di una squadra e sui cartelloni a bordo campo.
La litania dei conti in rosso delle società sponsor e fornitrici del calcio è lunghissima. Sarebbe superfluo farla: da Aig, main sponsor del Manchester United (17,7 milioni di euro l’anno per i diritti di maglia), all’Adidas, che ha annunciato nel primo trimestre del 2009 l’azzeramento dei profitti con una contrazione del 2% del fatturato. L’Adidas, occorre ricordarlo, è sponsor e fornitrice di Chelsea, Liverpool, Bayern Monaco, Milan, Ajax, Real Madrid. Impensabile credere che non ci siano ripercussioni. Secondo le stime degli analisti, nel 2008-2009, in Europa le sponsorizzazioni dovrebbero perdere solo il 2%, anche se le previsioni per il futuro non sono rosee.
«Tutto sommato- dice Michele Uva, direttore generale di Sport Markt- le sponsorizzazioni tengono. Certamente le aziende diventeranno più selettive. I budget non sono illimitati, tutt’altro. Però lo sport rimane in assoluto la vetrina più attrattiva.
Molto più degli altri media. Il problema del calcio non sono gli introiti da sponsor, ma la riorganizzazione del sistema. I diritti televisivi sono vicini al top. Per raggiungere l’equilibrio bisogna battere altre strade per aumentare le entrate e, soprattutto, tagliare i costi».
la fotografia della situazione italiana e l’agenda dei lavori per la nuova Lega di Maurizio Beretta. I conti di tutte le società non sono ancora disponibili ma, secondo le stime degli analisti,il passivo rispetto all’anno scorso è ancora cresciuto e ha superato i 300 milioni. In lieve calo gli introiti da stadio, sostanzialmente stabili i ricavi da sponsor e da diritti televisivi. Il problema italiano è strutturale: i ricavi dei club, circa 1,2 miliardi, derivano al 63% dai diritti televisivi. Mentre gli introiti da stadio e merchandising sono i più bassi in Europa. « lì - dice Uva - che si dovrebbe agire. Ma servirebbe una seria politica per costruire gli stadi di proprietà e azioni di marketing mirato per vendere la Serie A all’estero».Ma solo la Juventus sta costruendo il suo stadio, mentre il resto della Serie A gioca in strutture scomode ai limiti della fatiscenza.
E poi ci sarebbe la leva dei costi. Tagliare gli ingaggi dei calciatori che ammontano al 62% dei ricavi. Il modello è la Germania: le società distribuiscono ai calciatori il 45% dei ricavi (1,3 miliardi) che derivano per circa il 60% da botteghino e merchandising. Certo, di questi tempi è difficile pensare di tirare fuori i 3,5 miliardi che i tedeschi hanno investito per costruire gli stadi dei Mondiali ma rimettere in marcia la commissione stadi del Coni finanziandola sarebbe un buon inizio.
Stadi e taglio degli ingaggi: le squadre italiane non vincerebbero la Champions, ma anche sperperando non è che le cose siano andate molto meglio.