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 2009  maggio 11 Lunedì calendario

FONDI LOCUSTA, ORA I DEBITI SCHIACCIANO LE IMPRESE


Addio fondi locusta! Fino a ieri i fondi di private equity scorrazzavano in lungo e in largo per il mondo a caccia di imprese. Entravano nel capitale di queste ultime utilizzando una forte leva finanziaria che scaricavano sulla stessa società finanziando i suoi progetti di sviluppo. Dopo qualche anno i fondi uscivano con mirabolanti plusvalenze, anche del 100 per cento sul capitale investito. Non a caso questi strumenti erano stati soprannominati "fondi locusta". A somiglianza dei pericolosi insetti, infatti, la loro mission era in sostanza spremere valore da una società per poi uscire e andarsene a cercarne un’altra e ricominciare daccapo lo stesso ciclo.
Ora però questo delicato meccanismo si è inceppato. La crisi economica, che ha drasticamente ridotto i fatturati e i margini delle aziende, rende problematico e in alcuni casi impossibile il pagamento del forte debito accumulato dalle aziende controllate dai private equity con le banche. Da qui l’accusa oggi formulata al private equity, per molti anni salutato come uno degli strumenti per far crescere e dare linfa vitale alle imprese: avete esagerato con la leva finanziaria, ora a rischiare sono le imprese, anche sane industrialmente, su cui avete scaricato tutto il peso del debito.
Insomma, invece che essere motori di sviluppo, i fondi di private equity si starebbero trasformando in molti casi in strumenti di affossamento delle stesse imprese. Un nome su tutti, balzato di recente agli onori della cronaca: Ferretti, il gruppo che produce yacht di lusso, ha avuto a un certo punto bisogno di una ricapitalizzazione per fronteggiare il drastico calo del fatturato e dei margini. Ma il fondo Candover ha detto di no, perdendo di fatto i 360 milioni fin lì spesi. E il rappresentante della famiglia Ferretti, che ha una quota azionaria nel gruppo e ancora gestisce la società, ha accusato il fondo di averlo lasciato solo nel momento del bisogno. A salvare il gruppo Ferretti ci hanno pensato poi le banche finanziatrici e in particolare Mediobanca, che ne è diventata anche azionista.
Ma il caso Ferretti non è l’unico. In Italia ci sono tanti altri casi simili, dove il peso dell’enorme indebitamento scaricato sulle aziende dai fondi di private equity entrati nel capitale potrebbe mettere a rischio l’attività di un’impresa che rimane industrialmente sana. E già Ferretti dimostra che, quando c’è una difficoltà, il fondo non vuole sottoscrivere aumenti di capitale, preferisce perdere i soldi. Quindi la salvezza di molte imprese oggi dipende unicamente dalla volontà delle banche di ristrutturare il debito, in attesa che la crisi economica finisca e che fatturato e margini risalgano.
Insomma, la formula magica, leverage buyout (che significa semplicemente comprare la quota di un’azienda facendo indebitare la stessa impresa), che fino a ieri sembrava moltiplicare pane e pesci, oggi invece è visto con sospetto e preoccupazione. Tanto che la Commissione europea ha predisposto una bozza di direttiva, che riguarda anche gli hedge fund, per mettere un freno all’attività selvaggia dei fondi locusta (vedi articolo in basso).
Tra le centinaia di operazioni di private equity fatte ogni anno in Italia (in tutto sono attualmente in piedi 1.300 operazioni di questo tipo), quelle che oggi sono in difficoltà non sono tante. Ma sono quelle di importo più rilevante. Ad esempio c’è Seat Pagine Gialle, c’è Saeco (macchine per caffè, che però oltre a un calo del fatturato congiunturale soffre anche per la concorrenza di Nescafé), c’è Castelgarden. Un eccesso di debito anche per la catena di distribuzione di profumi Limoni, o di Argenta (macchine automatiche per il caffè negli uffici).
Un caso abbastanza eclatante è quello di Valentino, un’operazione su cui a suo tempo più di un fondo aveva messo gli occhi. Nonostante il calo del fatturato, però, sostanzialmente il business di Valentino regge, forse perché l’operazione con il fondo Permira è andata in porto quando già s’incominciava a intravedere la tempesta finanziaria in arrivo ed è stata pensata su basi più realistiche.
L’accusa al private equity di aver esagerato con la leva sembra aver colpito nel segno. Secondo una recente ricerca del Boston Consulting Group, il 50 per cento delle società partecipate a livello internazionale sarebbe a rischio di default: «Abbiamo sottoposto ad analisi il debito di 328 imprese partecipate da fondi dice Guido Crespi, partner e managing director della filiale italiana riscontrando che oggi circa il 60 per cento del loro debito è distressed. Nel 2006 era circa l’1 per cento! La conseguenza è che circa il 50 per cento delle imprese partecipate potrebbe andare in default nei prossimi tre anni». Ma non basta. Sempre secondo il Bcg sono a rischio gli stessi fondi di private equity: tra il 20 e il 40 per cento di questi scomparirà, mentre soltanto il 30 per cento sopravviverà sicuramente alla crisi; il destino dei restanti è meno certo.
E in Italia? Anche nel nostro paese la leva è stata usata in maniera smodata? «Senza dubbio anche in Italia si è spinto molto sulla leva spiega Fabrizio Baroni, Associate Partner di Kpmg siamo arrivati anche a 7 "giri di Ebitda" come si dice in gergo per le operazioni più grandi. Ovvero un indebitamento così alto che servono 7 anni di cassa generata dall’Ebitda (il margine operativo lordo) solo per ripagare la quota di capitale esclusi gli interessi. pur vero che fuori dall’Italia si è arrivati, per certe grandi operazioni, anche 10 giri di Ebitda. Ma il modello italiano è diverso. La stragrande maggioranza delle operazioni ha riguardato le Pmi, dove per creare valore è importante la crescita industriale rispetto all’ingegneria finanziaria, tipica invece dei megadeal».
Gli esperti, insomma, mettono anche in guardia da eccessive semplificazioni. L’aumento del debito, di per sé, non significherebbe nulla. Quel che è da vedere è la capacità di generare cassa per fronteggiare quel debito. « vero spiega Roberto Del Giudice, responsabile dell’Osservatorio dell’Università di Castellanza "Private Equity Monitor" che ci sono stati alcuni casi in cui il mix di leva + recessione ha messo in crisi l’impresa. Ma, diciamo la verità, un’impresa come Ferretti ha visto in pratica dimezzarsi i margini operativi e le vendite di yacht. E se anche i fondi di private equity non fossero mai entrati, oggi l’imprenditore si troverebbe lo stesso in difficoltà. Anche se, certo, in difficoltà minori di quelle attuali». Tuttavia va considerato anche il rovescio della medaglia, come sottolinea Barani: senza i fondi di private equity la Ferretti sarebbe rimasta un’ottima impresa ma non sarebbe mai cresciuta fino a diventare il leader mondiale del settore incorporando ben 12 marchi diversi.
Insomma, sembra troppo facile sparare sul pianista. «La verità dice Giampio Bracchi, presidente dell’Aifi, l’associazione che raggruppa i fondi di private equity e venture capital è che è sbagliato demonizzare chi, per mission, apporta capitale nelle imprese. Le aziende italiane, si sa, sono tutte sottocapitalizzate. In più, in questo momento le banche sono restie a prestare i soldi e la Borsa è ferma. Quest’anno e nel 2010 avremo molte operazioni di ristrutturazione aziendale e i fondi di private equity potrebbero giocare una parte importante nel riassetto».
Un’idea, quest’ultima, condivisa anche da Luciano Hassan, responsabile private equity di Intesa Sanpaolo: «Oggi chi ha flessibilità finanziaria ne approfitterà perché sta arrivando il momento per andare a comprare le società o quote di mercato. Secondo me da luglio in poi il mercato comincerà a muoversi. Ma il periodo di grande attività nell’M&A scatterà tra settembre e dicembre».
Quindi, passato questo momento di turbolenza, in cui gli operatori di private equity potrebbero archiviare anche delle forti perdite, la stessa discesa dei valori delle società ha creato le condizioni per una nuova ripresa del settore, questa volta con l’uso di una meno spregiudicata leva finanziaria, del resto non più permessa dalle stesse banche che comunque devono finanziarla.