Marcello De Cecco, Affari e finanza 11/5/2009, 11 maggio 2009
Poca luce in fondo al tunnel Su un cartello stradalesecondo una storiella russa di un paio di mesi fa si legge che "a causa della crisi economica, la luce alla fine del tunnel è temporaneamente spenta"
Poca luce in fondo al tunnel Su un cartello stradalesecondo una storiella russa di un paio di mesi fa si legge che "a causa della crisi economica, la luce alla fine del tunnel è temporaneamente spenta". Dal termine della riunione dei G20 del 2 aprile, le autorità dei principali paesi, aiutate dai massmedia hanno fatto del loro meglio per convincere l’opinione pubblica che la luce alla fine del tunnel si vede di nuovo. Gli sforzi si sono intensificati in questi ultimi giorni, in attesa dei risultati dello stress test che la presidenza americana ha ordinato alla Fed di condurre sulle diciannove principali banche degli Usa, che rappresentano il 75% dei depositi totali. una iniziativa che volutamente ricalca quella simile ordinata da Franklin Roosevelt dopo il suo accesso alla presidenza. Tra le sue prime misure ci fu la moratoria bancaria temporanea, mentre si controllava lo stato di salute delle banche. In quell’occasione, Roosevelt sapeva che la massima parte delle banche era in condizioni di solvibilità e quindi c’era bisogno di farlo vedere, onde convincere il pubblico a recedere dal panico bancario che minacciava di far fallire anche le banche in buone condizioni.Stavolta, dato che molte banche erano palesemente insolventi, le si è dovuto sottoporre ad una serie di misure cosmetiche importanti, e solo dopo che ciò è stato fatto si è potuto ordinare loro la "prova di resistenza" a condizioni traumatiche ipotetiche, come un ulteriore forte aumento del tasso di disoccupazione. Il governo ha dovuto prima di tutto iniettare massicce dosi di capitale nelle banche che presentavano i bilanci più disastrati, proporre un grandioso piano di vendita delle loro poste attive più tossiche, ampiamente sussidiato dal denaro pubblico (restato però finora al palo, per la difficoltà di far coincidere le opinioni delle banche venditrici e dei potenziali compratori sul valore di tali attività). Inoltre, e qui si tratta di cosmesi, l’organizzazione che fissa le regole di redazione dei bilanci ha decretato un’attenuazione delle regole di mark to market per le banche commerciali permettendo il ritorno parziale alla contabilità a costi storici. In queste condizioni, assai meno strenue per le banche, si è potuto senza troppo pericolo ordinare lo stress test, la prova di resistenza condotta congiuntamente dai funzionari della Fed e dal personale delle banche. I casi d’insolvenza erano stati formalmente eliminati, e si può quindi sperare che, con ulteriori iniezioni di capitale pubblico, già disponibile alle autorità e applicabile senza necessità di chiedere ulteriori fondi a un Congresso sempre meno disposto a fornirli, il sistema bancario sia temporaneamente stabilizzato. Ma dallo stress test emerge, nonostante la cosmesi, che un certo numero di banche richiede ancora fondi pubblici o che i fondi forniti dal governo siano trasformati in partecipazioni azionarie ordinarie anziché privilegiate. Lo stato diventerà così l’azionista principale di Bank of America, probabilmente, mentre già lo è in Citibank e nel gigante assicurativo Aig. Tutta questa lunga e complessa operazione ha lo scopo ultimo di mettere le banche in condizioni di ricominciare a prestare alle imprese e ai privati cittadini americani. Da mesi quest’attività è bloccata, non avendo le banche in buono o cattivo stato denaro da prestare e non potendoselo procurare sul mercato interbancario nazionale e internazionale se non a condizioni proibitive e solo a brevissimo termine. Le imprese hanno solo di recente e per quantità ridotte ricominciato a emettere obbligazioni, mentre del tutto trascurabile resta l’attività di emissione di nuove azioni. Il vigoroso battage iniziato dalle autorità di governo per convincerci della riaccensione della luce in fondo al tunnel, quindi, serve a favorire una atmosfera meno tremendamente pessimistica di quella stabilitasi nel mondo negli ultimi nove mesi, a partire dal fallimento della Lehman Brothers. Essa ha indotto le imprese dei principali paesi, e in particolare quelle americane, a interrompere ogni iniziativa di investimento volta a razionalizzare o ad accrescere la capacità produttiva e a operare massicci licenziamenti, specie nel paese dove essi sono più facili, gli Stati Uniti. I sei milioni quasi di americani che hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi sono il numero più alto di disoccupati dalla grande depressione. Ci si aspetta che essi aumenteranno ancora, nei prossimi mesi, ma si afferma che la velocità di accrescimento della disoccupazione si sta riducendo, anche se non di molto (ci si aspettavano in aprile 600.000 richieste di contributi di disoccupazione e se ne sono avuti solo 539.000). Si leggono i dati sulla produttività con sollievo, visto che essa ha ricominciato ad aumentare, mentre nei mesi scorsi diminuiva, nonostante l’enorme crescita dei disoccupati. E’ segno, si dice, che le imprese sono in grado di far lavorare più intensamente i propri lavoratori. Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, comparso di fronte al Joint Economic Committee del Congresso solo qualche giorno fa, si è contato tra coloro che vedono i segni di una svolta nei dati economici più recenti. Più cautamente, ha detto che i segni sono di una fine della caduta che dura da tanti mesi. Oltre ai dati che ho già citato, egli ha ricordato quelli sulle scorte, sottoposte ad un lungo processo di liquidazione nel corso della crisi, che pare ora terminato. Dai livelli minimi ai quali si trovano ora dice Bernanke esse si presume dovranno risalire nei prossimi mesi, per mantenere un rapporto fisiologico con la produzione. una presunzione ragionevole, ma indica anche la criticità della situazione attuale. Bernanke, infatti, pur dicendosi certo di un esito relativamente favorevole per le prove di resistenza a condizioni di emergenza richieste alle banche, sottolinea la necessità assoluta che il sistema finanziario non registri al proprio interno qualche nuovo disastro nei prossimi mesi, o che non ne accada qualcuno nel sistema finanziario internazionale. Se così fosse infatti Bernanke non lo dice ma possiamo ben dirlo noi addio investimenti e ricostituzione delle scorte. Gli spiriti animali degli imprenditori, dei quali tanto si parla in questi giorni, senza ricordare Cartesio, che inventò questa espressione, riscenderebbero infatti al minimo e i loro cuori tornerebbero ad essere di coniglio, anziché di leone. Nelle parole di Bernanke pare di leggere un monito, quasi una preghiera alla comunità finanziaria americana, della stessa natura della invettiva rivolta dal presidente Obama a quel "pugno di speculatori" irriducibili che impedivano la soluzione Fiat per la Chrysler. Bernanke è assai meno duro con banchieri e finanzieri, ma nelle sue parole è implicito un invito a pensare alle conseguenze macroeconomiche e socio politiche delle loro azioni e non solo a massimizzare i propri guadagni o a cercar di evitare in ogni modo il controllo da parte dello stato sui propri affari, rifiutando le iniezioni di capitale necessarie a far ripartire il meccanismo dei finanziamenti all’economia. Questi ultimi sono l’obiettivo a cui tende tutta l’operazione di infusione di ottimismo. Anche se gli investimenti non possono sostituire i consumi come motore dell’economia, è impensabile un nuovo ciclo di consumi innescato da un indebitamento per i cittadini americani della portata di quello drammaticamente conclusosi qualche mese fa e quindi se ripartono gli investimenti essi potranno stimolare l’occupazione e infine anche i consumi su una base meno precaria dell’indebitamento. Potranno così recuperare anche le vendite di case, ora ai minimi assoluti, visto che i loro prezzi stanno tornando a livelli più abbordabili. Tutto è ancora legato a un filo, che può, come dice Bernanke, spezzarsi se emerge qualche altro disastro finanziario. Non è necessario che sia di fabbrica americana. Una seconda bancarotta russa, ad esempio, della portata di quella del 1998, non è assolutamente da escludere, magari il prossimo agosto, come da tradizione, e questa volta coinvolgendo non le banche ma qualche conglomerati industriale tra i molti che sono ultra indebitati con le banche occidentali. Né sono da escludere sorprese argentine o turche. Ne soffrirebbero innanzitutto le banche europee, ma la gelata sul mercato interbancario sarebbe di nuovo immediata e colpirebbe anche le fragili banche americane.