Lettera a me dopo articolo su Gazzetta dell’11/5/2009, 11 maggio 2009
Gentile Giorgio dell’Arti, Le scrivo per il suo articolo apparso su La Gazzetta di oggi (11 maggio) perché mi ha onestamente turbato
Gentile Giorgio dell’Arti, Le scrivo per il suo articolo apparso su La Gazzetta di oggi (11 maggio) perché mi ha onestamente turbato. Purtroppo in senso negativo. In genere trovo i suoi articoli brillanti e capaci di sintetizzare problemi assai complessi. Invece questa volta non condivido quasi nulla di ciò che ha scritto. Anche se insegno Sociologia delle relazioni etniche all’Università La Sapienza di Roma è probabile che non abbia capito bene. Penso che l’errore sia nella sua definizione (o meglio quella a cui lei ipotizza abbia fatto riferimento Berlusconi) di ”società multietnica”, che in realtà non è molto differente da quella che viene utilizzata per designare una società basata sulla segregazione (per intenderci, sul modello sudafricano di qualche anno fa), o su aggregazioni per forza separate. E’ un approccio sbagliato, perché non tiene conto che noi siamo da anni (e forse da secoli) una società multietnica, sia perché è questo il senso dell’art. 3 della Costituzione italiana, sia perché abbiamo una legge nazionale e diverse leggi regionali di tutela delle minoranze etnico-linguistiche. Dire qualcosa di diverso, o meglio fare un’affermazione del tipo di quella riportata dai giornali, è assai vicino al razzismo (basta rileggersi i dieci punti del manifesto razzista che ha anticipato le leggi razziali del 1938 per trovare molte assonanze!). Inoltre, l’idea che dà della società multietnica immaginata dalla sinistra (?) mi sembra sia quel melting pot che negli Stati Uniti d’America ha prodotto, non ultimo, un certo Obama (tra i modelli che lei elenca, parla di un modello americano di cui, a dire il vero, non ho mai sentito – ”scordati del tuo Paese nel momento che metti piede qui” – E gli italo-americani a noi tanto cari?. Probabilmente quello che lei attribuisce all’America era il modello assimilazionista francese). Quando si parla di società multietnica ci si riferisce ai modelli di integrazione che vengono offerti, ovviamente in base ad un meccanismo di diritti-doveri, a chi ha origini diverse, o se vogliamo è straniero per legge, ma spesso non per cultura. Il vero problema è che l’Italia è uno dei pochissimi paesi occidentali che ancora ritiene che alla nascita si è italiani se si ha almeno un genitore italiano (’diritto di sangue”); se invece si hanno entrambi i genitori stranieri, almeno fino a 18 anni si è stranieri e a nulla vale se si nasce, si cresce, si va a scuola in Italia senza mai visitare il paese d’origine dei genitori (i casi Balotelli e Okaka insegnano). Quindi, il vero limite alla società multietnica è oggi proprio la norma giuridica che impedisce a moltissimi ragazzi di seconde generazioni - che, come giustamente evidenzia lei, dovrebbero essere il simbolo di integrazione e del superamento di pregiudizi – a essere italiani a tutti gli effetti. In Italia esistono ormai centinaia di migliaia di famiglie multietniche, come la mia (mia moglie è d’origine etiopica, ma a sua volta ha padre italiano, e ho un figlio meticcio), molte delle quali considerano quella frase una vera offesa, un modo come un altro per dire che non siamo ben accetti. E – per rimanere in ambito sportivo - cosa direbbe ai tanti Mario Balotelli, Stefano Okaka, Matteo Ferrari, Fabio Liverani, Dayo Oshadogan, o agli 8 Black Italians (non tutti di seconda generazione) che hanno partecipato alle ultime Olimpiadi? E ai due parlamentari d’origine africana che abbiamo eletto (uno per parte politica)? Sono o no i rappresentanti di una società multietnica? Che differenza c’è con chi negli stadi grida ”non ci sono italiani negri?” Indubbiamente il problema non è facile, ma dobbiamo tenere ben saldo un principio: siamo sempre stati, siamo e saremo una società multietnica, multireligiosa e multirazziale. Detto questo, come si dice, si apra un sano dibattito che non utilizzi i più bassi sentimenti per meri scopi elettorali. Saremo però capaci di spiegare ai nostri amici stranieri cosa intendiamo noi per ”italianità”, ovvero: cosa dovrebbe dimostrare una persona d’origine straniera per essere serenamente accettato a far parte della comunità italiana (noti che nessuno si pone il problema di una società multietnica pensando ai discendenti di italiani emigrati un secolo fa all’estero, quasi che l’italianità sia un semplice problema di sangue!). Ma oggi, non siamo tutti un po’ multietnici? Chiudo ricordando un episodio che, molti anni fa, ha riguardato proprio il giornale dove scrive (e che ho avuto il piacere di ricostruire in un mio recente libro, ”Nero di Roma”). Il 24 giugno 1928, un giovane pugile meticcio italo-congolese, Leone Jacovacci, vince il titolo italiano ed europeo dei pesi medi, battendo il milanese Mario Bosisio. Il giorno dopo, proprio su La Gazzetta, in prima pagina, candidamente viene scritto che non può essere un nero a rappresentare l’Italia. ”Non esistono italiani dal sangue negro”, si diceva allora e purtroppo c’è ancora chi lo pensa. Cordiali saluti Mauro Valeri