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 2009  maggio 10 Domenica calendario

La società multietnica è un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse: con ciò si intende l’appartenenza consapevole a un gruppo che condivide uno spazio geografico di provenienza, una comune discendenza, una cultura condivisa, siano essi reali o socialmente costruiti

La società multietnica è un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse: con ciò si intende l’appartenenza consapevole a un gruppo che condivide uno spazio geografico di provenienza, una comune discendenza, una cultura condivisa, siano essi reali o socialmente costruiti. Il principale, ma non unico, fattore di genesi della società multietnica è costituito dal fenomeno delle migrazioni internazionali. Immediatamente connesso con questo tipo di sistema sociale è il problema della regolazione della convivenza tra minoranze e maggioranza, o tra immigrati e società d’accoglienza, che costituisce un tema ampiamente frequentato dagli scienziati sociali; ciò nonostante, l’analisi della letteratura porta a sottolineare l’insufficiente sistematizzazione della materia e, in particolare, la mancanza di un vocabolario condiviso nell’ambito della comunità scientifica. In termini generali si può dire che i vari concetti coniati per descrivere i rapporti tra stranieri e società ospite hanno una natura processuale e possono essere sommariamente distinti in processi integrativi e disintegrativi, a seconda che focalizzino la dimensione dell’inclusione degli immigrati oppure quella della loro esclusione e del potenziale conflitto tra gruppi etnici diversi. Relativamente ai processi integrativi, i concetti maggiormente ricorrenti nella letteratura sono quelli di integrazione e di assimilazione. Per quanto, come si è detto, il loro significato non sia univoco, le accezioni più frequenti individuano nell’assimilazione il processo attraverso il quale il nuovo arrivato interiorizza i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali della società ospite, laddove l’integrazione concerne precipuamente la sfera socio-economica ed implica l’adozione di patterns comportamentali e il raggiungimento di condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza però addivenire ad una completa conformità culturale. Se dunque l’assimilazione comporta il sostanziale abbandono della cultura d’origine - come prescritto dal modello americano del melting pot -, l’integrazione accetta ed eventualmente valorizza il pluralismo culturale. inoltre interessante osservare che mentre si sarebbe portati a pensare che l’assimilazione culturale si manifesti solo dopo che l’immigrato abbia raggiunto un buon livello di integrazione socio-economica, l’evidenza empirica suggerisce l’eventualità di un’opposta successione tra i due processi: ciò vale soprattutto per le seconde generazioni spesso perfettamente assimilate, grazie all’azione socializzatrice della scuola e dei mass media, ai modelli di comportamento e agli stili di consumo della società in cui sono cresciuti, ma ancora non completamente integrati dal punto di vista socio-economico a causa dell’impossibilità della famiglia di sostenere con adeguate risorse economiche e culturali le loro aspirazioni di mobilità sociale. L’ambiguità di significato che circonda l’uso dei concetti di assimilazione e di integrazione ha indotto il ricorso a differenti espressioni. Tra le più utilizzate ricordiamo la nozione, di chiara derivazione struttural-funzionalistica, di adattamento - che designa le modalità attraverso le quali l’immigrato (o più propriamente i gruppi di immigrati) reagisce al nuovo ambiente apprendendo i ruoli funzionali agli imperativi sistemici - e quella di acculturazione, che descrive il processo interattivo attraverso il quale due gruppi differenti selezionano e parzialmente trasformano alcuni tratti della cultura con la quale sono entrati in contatto, integrandoli nel proprio sistema culturale di riferimento. In termini generali la configurazione, i tempi e gli esiti di quelli che abbiamo chiamato processi integrativi dipendono da un’articolata serie di fattori e di condizioni. Un primo ordine di fattori rinvia al divario che sotto diversi punti di vista (caratteristiche fisico-somatiche della popolazione, sistemi culturali, posizione nel contesto della divisione internazionale del lavoro, ecc.) esiste tra la società d’origine e quella d’approdo. Altri elementi concernono le caratteristiche specifiche dei soggetti che emigrano (età, sesso, livello di istruzione, padronanza della lingua del paese ospite, attitudine alla devianza, condizione di isolamento o partecipazione ad una migrazione familiare e/o comunitaria, ecc.) e della società che li accoglie (orientamenti culturali nei confronti dello straniero, chances di mobilità sociale, caratteristiche del mercato del lavoro, diffusione di pregiudizi e stereotipi sugli stranieri o addirittura di atteggiamenti xenofobi e così via). Un ruolo particolare va comunque attribuito alle politiche integrative. A questo proposito si rileva come le analisi più circostanziate hanno ormai dimostrato la sostanziale inattendibilità di nozioni quale quella della soglia di tolleranza, che postula che ciascuna società abbia una capacità di assorbimento degli stranieri predefinita ed esprimibile in termini percentuali. Spetta semmai alle autorità politiche e amministrative prevenire l’insorgenza di possibili focolai di conflitto, e in particolare la formazione di ghetti e delle altre forme di insediamento poco funzionali all’instaurazione di rapporti di pacifica convivenza con la popolazione autoctona. Da questo punto di vista merita di essere ricordato che sono stati coniati specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti delle comunità straniere. Un primo termine, che in realtà appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di colonia etnica: esso descrive il risultato di un’immigrazione di massa in una determinata area di un paese straniero. Il termine colonia è solitamente riferito a ragioni che si presentavano, all’arrivo degli immigrati, "vergini" o comunque poco popolate; per estensione esso può essere impiegato per descrivere i raggruppamenti di connazionali in determinate aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti riferirsi con appellattivi come Little Italy o China Town. Questi raggruppamenti, funzionali al bisogno di reciproco sostegno soprattutto nelle fasi iniziali del progetto migratorio, hanno storicamente rappresentato il crogiuolo privilegiato per la costituzione delle c.d. "enclaves etniche" e per l’avvio di forme di imprenditorialità su base etnica (c.d. "economie etniche"). Essi hanno altresì costituito l’oggetto di studi e ricerche, svolte in particolare dagli esponenti della Scuola di Chicago, che restano capisaldi fondamentali nell’attuale sociologia delle migrazioni, e che hanno contribuito a fare luce su fenomeni di rilevante interesse sociologico, come quello della devianza (si ricordi la nota teoria di Merton e la teorizzazione della delinquenza giovanile in termini di bande) o della strutturazione di specifiche sub-culture nel contesto di sistemi sociali tendenzialmente conformistici. Merita di essere ricordato il ricorso al termine di ghetto, che dà conto della condizione di segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi della società d’accoglienza. Il ghetto è connotato da una propria specifica forma di stratificazione sociale, da un proprio sistema di potere e di influenza e dalla frequenza di fenomeni di anomia sociale. In realtà il termine ghetto, se è senza dubbio pertinente a descrivere la realtà di molte città americane, appare inadeguato a dare conto dell’esperienza europea dove è più frequente constatare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado sociale e urbano, la convivenza di stranieri e autoctoni appartenenti agli strati più bassi della gerarchia sociale. Nell’un caso e nell’altro la presenza degli immigrati tende a essere mal sopportata dalla popolazione locale, che è solita assumerli come capri espiatori di situazioni di disagio e di degrado che hanno cause non riconducibili all’arrivo degli stranieri. Di qui l’attenzione che deve essere attribuita a quelli che più sopra abbiamo chiamato processi disintegrativi che vanno dalla stratificazione su basi etniche della società e più in particolare del mercato del lavoro (eventualmente alimentata da orientamenti culturalmente differenzialistici che legittimano l’esistenza delle c.d. "specializzazioni etniche") alla discriminazione nell’accesso alla casa, al lavoro e all’istruzione; dalla segregazione - volontaria o coatta - sociale e territoriale rispetto al sistema sociale complessivo all’esistenza di conflitti su base etnica ma passibili di svilupparsi altresì tra gruppi di immigrati di nazionalità diversa o di più o meno recente arrivo. Il conflitto etnico viene usualmente ricondotto al modello tradizionale dello sfruttamento della minoranza a opera della maggioranza. Tanto i sociologi funzionalisti quanto quelli marxisti sono comunque approdati a ipotesi di soluzione del conflitto etnico curiosamente simili: i primi hanno postulato una convergenza delle culture minoritarie in quella maggioritaria, attraverso il processo di modernizzazione e la progressiva sostituzione delle solidarietà di tipo ascrittivo con quelle di tipo funzionale; i secondi hanno a loro volta ipotizzato un graduale assorbimento dell’appartenenza etnica da parte di quella di classe. Un ultimo cenno, sempre a proposito dei rapporti tra immigrati e società ospite, deve essere fatto con riguardo alla questione della partecipazione dei primi al mercato del lavoro. Le teorie che sono state elaborate evidenziano la loro funzione di volta in volta complementare, sostitutiva o concorrenziale rispetto alla manodopera locale, e da questa funzione vengono fatte discendere specifiche conseguenze anche rispetto all’evoluzione delle relazioni con la popolazione locale. Di fatto la storia delle migrazioni internazionali, e soprattutto le sue fasi più recenti, inducono a ridimensionare i rischi di concorrenza coi lavoratori autoctoni: gli immigrati sono soliti assumere i lavori rifiutati dalla manodopera locale, a collocarsi in quello che Piore ha definito il mercato del lavoro "secondario" e caso mai si innesta una sorta di concorrenza interna al gruppo dei lavoratori stranieri, nel senso che gli ultimi arrivati rimpiazzano gli altri nelle posizioni più basse della gerarchia occupazionale. é inoltre di grande interesse rilevare che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro di arrivo (e più in generale nella società) adempie a una "funzione specchio", cioè di rivelatore delle caratteristiche, delle opportunità e delle disfunzioni di ciascun mercato locale del lavoro (e di ciascuna società locale). Abbiamo più sopra richiamato l’importanza delle politiche per prevenire l’insorgere di difficoltà di convivenza tra stranieri e autoctoni. Nella tradizione europea si possono individuare differenti modelli di regolazione della convivenza inter-etnica. In questa sede ci limiteremo a ricordare le principali caratteristiche del modello francese, di quello tedesco e di quello applicato nei paesi nordici. Il modello tedesco si è tradizionalmente fondato sul concetto di gastarbeiter, il lavoratore ospite, figura idealtipica di quella fase delle migrazioni dirette verso il Nord-Europa nella quale valeva la presupposizione di una permanenza a tempo e scopi definiti, e che trovava il suo epilogo nel rientro del migrante nella terra d’origine. L’immigrazione in questo periodo - l’immediato dopoguerra - era strettamente funzionale alle esigenze di rilancio dell’economia del paese ospite; la percezione dello straniero era quella di un mero prestatore di lavoro. Le politiche dell’immigrazione si basavano su una stretta regolazione dei flussi in ingresso, sull’integrazione professionale, sull’incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti disoccupati) ed eventualmente sulla promozione di una rotazione delle presenze, idonea a inibire la stabilizzazione degli insediamenti immigrati. A dispetto di queste premesse le presenze straniere si sono in numerosissimi casi tramutate in definitive, hanno generato consistenti flussi di riunificazione familiare e dato vita a vaste comunità straniere, non di rado orientate all’autoimprenditorialità, anche come strategia di risposta ai problemi occupazionali emersi coll’esaurirsi del processo di ricostruzione post-bellica. L’ambiguità del modello tedesco resta però evidente nel fatto che la Germania continua a non considerarsi terra d’immigrazione, e a richiedere agli stranieri stabilmente presenti sul territorio tedesco un’integrazione intesa fondamentalmente come uniformità ai modelli culturali autoctoni. Coerente con questa impostazione del problema della convivenza interetnica è la preferenza da sempre accordata agli stranieri supposti "assimilabili" e la perpetuazione di una tradizione, in materia di criteri per la concessione della cittadinanza, rigidamente fondata sullo jus sanguinis. L’approccio francese è per converso da sempre ispirato a una visione decisamente assimilatrice e tributaria verso gli ideali di grandezza nazionale che ha le sue radici nella prassi, vigente fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, della naturalizzazione dell’immigrato. Le politiche per gli immigrati hanno mirato a promuovere l’assimilazione degli stranieri all’ideale di una Francia laica e repubblicana; di qui la centralità attribuita alle agenzie educative, e in primo luogo alla scuola, rispetto all’obiettivo dell’integrazione culturale degli immigrati e dei loro discendenti. Aporie e contraddizioni sono però presenti nel modello francese almeno quanto lo sono in quello tedesco. L’assimilazione culturale non si è accompagnata ad un effettivo e generalizzato inserimento socio-professionale degli stranieri. Si osserva inoltre, nei provvedimenti più recenti, l’ambigua compresenza di principi quali il rigido controllo dei flussi e l’integrazione degli immigrati già presenti, il diritto all’indifferenza con il rispetto delle identità. Più in generale, la questione dell’immigrazione soffre di un’eccessiva politicizzazione e di una mediatizzazione che produce allarmismo e inquietudine nell’opinione pubblica, soprattutto nei confronti dell’immigrazione musulmana. I paesi nordici si riconoscono invece nel modello della "minoranza etnica", cioè nella scelta di istituzionalizzare, attraverso la "creazione" di gruppi minoritari, la marginalità di quelle componenti dell’immigrazione meno integrate dal punto di vista culturale e da quello strutturale. La creazione dei gruppi viene vista come funzionale alla legittimazione delle richieste delle minoranze, e quindi alla promozione dell’uguaglianza con gli autoctoni. In linea di principio, questo approccio appare ispirato da ideali di grande apertura - questi paesi si distinguono, tra l’altro, per aver concesso agli stranieri residenti il diritto di voto a livello locale -, ma la sua applicazione non è risultata esente da effetti perversi. La creazione delle minoranze, su basi di eterodefinizione, può finire paradossalmente col rafforzarne la segregazione, a causa soprattutto della loro insufficiente capacità d’azione politica. Inoltre, l’esistenza di canali partecipativi specificamente destinati agli stranieri può divenire un palliativo, da parte della società ospitante, per non aprire le proprie istituzioni agli stranieri stessi, ciò che accentua il loro isolamento. Per questi motivi negli ultimi anni lo scetticismo nei confronti dei raggruppamenti su base etnica è divenuto sempre più manifesto, e si tenta vieppiù di inserire gli immigrati nei movimenti popolari locali. La difficoltà di conservare il consenso popolare nei confronti di un orientamento di apertura verso gli stranieri è apparsa con evidenza negli ultimi anni, in relazione al problema dei rifugiati politici. La Svezia, per esempio, è passata da una posizione connotata da forte permissività e dalla volontà di valorizzare la funzione economica dei profughi a un orientamento marcatamente restrittivo, che viene a convergere con la tendenza più diffusa a livello europeo. In termini complessivi i paesi europei e più in generale quelli occidentali sono attualmente quasi tutti coinvolti nella ridefinizione delle proprie politiche migratorie e della normativa in materia di rifugiati politici, in conseguenza della crescente differenziazione dei flussi (sia dal punto di vista della provenienza geografica sia da quello della tipologia dei soggetti che emigrano), dell’uso distorto che tende ad essere fatto della richiesta di asilo politico, della clandestinizzazione degli ingressi, dell’emergere di orientamenti allarmistici nell’opinione pubblica. Generalmente i provvedimenti finora adottati hanno mirato a riacquisire il controllo sugli ingressi (rafforzamento dei controlli alle frontiere, estensione dei visti ad un numero maggiore di paesi, lotta all’immigrazione clandestina), mentre è sempre più avvertita l’esigenza di un migliore coordinamento in materia di asilo politico. L’altro oggetto delle politiche migratorie (ma in questo caso è più corretto parlare di politiche per gli immigrati) è costituito dagli interventi per l’inserimento socio-economico degli stranieri già presenti. Agli articolati e complessi programmi per l’insediamento definitivo promossi da paesi come il Canada e l’Australia si contrappongono le misure di carattere più specifico adottate dai vari paesi dell’OCDE che contemplano una molteplicità di obiettivi: dall’apprendimento della lingua del paese ospite all’inserimento scolastico dei minori stranieri, all’integrazione professionale, al miglioramento delle condizioni di vita nei quartieri caratterizzati da una forte presenza straniera. Ma, in termini complessivi, le iniziative finora adottate dai paesi dell’OCDE, e in particolare il tentativo di riacquisire un maggiore controllo sui flussi, configurano una risposta solo parziale all’accelerazione e alla diversificazione dei movimenti migratori. Resta aperto il problema dello sviluppo economico dei paesi d’emigrazione - e quindi quello delle prospettive della cooperazione internazionale -, unico antidoto efficace nei confronti dello stimolo ad emigrare. Ma resta altresì aperto il problema di riconoscere come l’aspirazione a ricercare la mobilità sociale attraverso quella territoriale rappresenti un dato ineliminabile della nostra realtà presente e futura. Questa constatazione implica un ripensamento sia dei criteri tradizionalmente adottati per definire gli immigrati come categoria sociale, sia di quelli che presiedono all’accesso ai diritti (entitlement), tuttora in buona parte subordinato al requisito della cittadinanza. Rispetto al primo problema occorre osservare che il criterio più utilizzato, quello della cittadinanza, non comprende gli "immigrati dal punto di vista sociologico" che però posseggono, per svariate ragioni, il passaporto del paese di destinazione; d’altro canto, anche una definizione basata su criteri etnici o culturali incontra seri limiti, sia per l’arbitrarietà dei criteri con cui si dovrebbe definire l’appartenenza etnica degli individui, sia per l’ineluttabile evoluzione in senso multi-culturale della società. Per quanto invece concerne il secondo problema si tratta di riconoscere come le migrazioni internazionali hanno portato a una crescente discrepanza tra i concetti di "residenza" e di "cittadinanza", e di conseguenza a una eterogeneità nella distribuzione dei diritti civili. Le proposte più innovative finora avanzate sostengono la necessità di denazionalizzare il concetto di cittadinanza, collegando la tutela dei diritti al dato emergente della "territorialità". Ma anche questa prospettiva rischia di apparire angusta allorquando si considera che il divenire della società e dell’economia evidenzia la crescente anacronisticità della regolazione di livello nazionale, e colloca vieppiù entro uno spazio "virtuale" i network che strutturano le relazioni e gli scambi: emblematico, da questo punto di vista, il fenomeno delle migrazioni "itineranti", che hanno spesso per protagonisti soggetti appartenenti agli strati medio-alti della gerarchia professionale e di cui l’esempio più eloquente è rappresentato dai c.d. "transilient" originari di Hong Kong. In tale contesto, una possibile modalità per superare le aporie dei tradizionali modelli di regolazione della convivenza interetnica è quella basata sulla distinzione tra una sfera "privata" e una sfera "pubblica", sul riconoscimento di un diritto all’uguaglianza in ambito "pubblico" e la parallela valorizzazione delle differenze in ambito "privato". Un ultimo accenno merita di essere fatto al proposito della c.d. "famiglia multietnica" che, nel suo significato letterale, designa l’entità familiare che risulta dal "matrimonio misto" (unione coniugale tra individui di diversa razza o nazionalità) o dall’"adozione internazionale" (inserimento di un minore straniero in un nucelo familiare autoctono), fenomeni che hanno entrambi conosciuto la loro maggiore diffusione in questi ultimi anni. é peraltro invalso il ricorso a questa espressione anche per designare, in un senso più lato, l’istituzione familiare entro una società multietnica, e conseguentemente per porre a tema le dinamiche di rinegoziazione degli equilibri, delle aspettative reciproche, della divisione del lavoro tra sessi e generazioni cui essa è sottoposta in conseguenza del confronto con differenti sistemi culturali, e che in maniera eccessivamente semplicistica sono spesso ricondotti alla dicotomia "tradizione"/"modernità". Più che su una sterile contrapposizione tra questi due poli, l’analisi del tema in questione dovrebbe concentrarsi sulle potenzialità che la presenza di famiglie "altre" offre per una riflessione sulla propria identità individuale e comunitaria, la cui rilevanza emerge appunto sostanzialmente solo grazie al confronto con una identità diversa.