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 2009  maggio 09 Sabato calendario

C’è un manager italiano, Sergio Marchionne, che in questi giorni tiene alto il nome del nostro Paese per quello che sta facendo a livello di equilibri mondiali in campo automobilistico

C’è un manager italiano, Sergio Marchionne, che in questi giorni tiene alto il nome del nostro Paese per quello che sta facendo a livello di equilibri mondiali in campo automobilistico.

Da solo è in prima linea (incontra personalità imprenditoriali, politiche e sindacali) per questi obiettivi importanti per l’azienda che dirige e per tutto il «made» del nostro Paese. Da cittadino noto una assenza totale in questo lavoro dell’aiuto (anche morale) della nostra politica.

Donato Coletti

donato.coletti@tele2.it

Sergio Marchionne come Enrico Mattei? Forse oggi il discusso presidente dell’Eni sta per essere rivalutato.

Del resto l’unico gruppo veramente internazionale è stato per anni l’Eni. Ora arriva Marchionne che, dopo aver miracolato l’agonizzante azienda torinese, sta creando uno dei più grandi gruppi automobilistici del mondo.

Certo ci sono anche banche italiane e altre imprese di dimensioni internazionali, ma Fiat sta diventando forse un caso unico. Una buona notizia, perché un Paese non può essere una potenza economica se non ha grandi imprese industriali. Il crollo economico della Gran Bretagna che da tempo ha abdicato a favore di commercio e finanza è un esempio significativo.

Mauro Lupoli

mauro.lupoli@fastwebnet.it

Adesso che i riflettori sono accesi sugli accordi di Sergio Marchionne per la Fiat le domando: a che cosa servono tanti accordi internazionali se poi le automobili non vengono prodotte a Torino? Magari vengono confermate le produzioni in Polonia, Turchia, Brasile e altri Paesi dove la mano d’opera costa meno? Se si guarda la fine che ha fatto Fiat Mirafiori i sospetti sono ben giustificati e i sindacati possono soltanto garantire altra cassa integrazione, invece di un lavoro sicuro per i torinesi giovani e meno giovani.

Marino Bertolino

ederasas.ederasas@tin.it

Cari lettori,
Una indispensabile pre­messa. Fra Mattei e Marchionne esiste una fondamentale differenza. Mat­tei fu un imprenditore italia­no, immerso fino alla punta dei capelli nella politica nazio­nale. Obbedì a criteri economi­ci e aziendali, ma era nazionali­sta e fece del suo meglio per orientare la politica estera del suo Paese verso obiettivi che, nelle sue intenzioni, avrebbe­ro giovato contemporanea­mente agli interessi dell’Eni e al futuro dell’Italia. Sergio Mar­chionne, invece, è il meno ita­liano dei nostri imprenditori. Quando la Bild, il grande quoti­diano tedesco, gli ha chiesto, dopo i recenti colloqui di Berli­no, se si rendeva conto della «paura dei dipendenti di Opel verso capi italiani», Marchion­ne ha risposto: «Io sono cana­dese. Per Fiat oggi lavorano ol­tre 200 mila persone. Ma non sono assolutamente tutti italia­ni che mangiano spaghetti ogni giorno. Siamo un’azienda internazionale con sede in Ita­lia. E io non ho nessun proble­ma se la centrale del nuovo gruppo Fiat-Opel sarà in Ger­mania e in Italia».

Non credo che queste affer­mazioni siano una mossa di­plomatica, destinata a tranquil­lizzare i tedeschi. Marchionne parte dalla constatazione che occorre vendere, per stare sul mercato, sei o sette milioni di autovetture, e si sta servendo della Fiat, che ha salvato sul let­to di morte, per creare un grup­po che non avrà una identità nazionale. Sa che i governi so­no ancora nazionali e che han­no interlocutori – gli elettori, i sindacati, la pubblica opinio­ne – a cui non possono volta­re le spalle. Occorre quindi ve­nire a patti con le classi politi­che dei Paesi in cui si lavora, ot­tenere il loro appoggio finan­ziario e la loro benevolenza. Ma Marchionne sa altresì che nessuna singola azienda nazio­nale, in Europa e negli Stati Uniti, può affrontare da sola il mercato mondiale. La Fiat è in condizioni di salute relativa­mente buone e Marchionne se n’è servito per realizzare il suo disegno. Ma il prodotto finale non apparterrà agli attuali pro­prietari dell’azienda torinese e non sarà italiano nel modo in cui lo è stato in passato. Que­sto non significa che l’Italia non sia destinata a trarre da questa iniziativa molti benefi­ci. Far parte del vertice di una grande azienda internazionale apre prospettive che Torino, in particolare, potrà cogliere. Ma la nuova «Fiat-Chrysler­Opel», se verrà alla luce, non sarà l’azienda degli Agnelli, dei Valletta e dei Romiti.

Spero che queste considera­zioni rispondano anche alle preoccupazioni di Marino Ber­tolino. Quando dovrà decidere la sorte di un impianto, la nuo­va azienda farà indubbiamente scelte economiche. Ma terrà conto anche del clima sociale del Paese in cui lavora. Di più, allo stato attuale delle cose, non può promettere.