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 2009  maggio 09 Sabato calendario

di GIOVANNI CAPRARA «Mettere le mani sul tele­scopio spaziale, ridargli la vi­sta, quasi non ci credevo

di GIOVANNI CAPRARA «Mettere le mani sul tele­scopio spaziale, ridargli la vi­sta, quasi non ci credevo. Ep­pure ero lì nella stiva dello shuttle Endeavour e respiran­do faticosamente per i difficili movimenti permessi della tu­ta, ero proprio io a compiere l’operazione dalla quale dipen­deva la rinascita o la morte de­finitiva del più importante te­lescopio mai costruito». Jef­frey Hoffman dopo cinque spedizioni con la navetta della Nasa è tornato a in­segnare astrono­mia al Massachu­­setts Institute of Te­chnology. Ha 64 an­ni ed è nato a Broo­klyn, New York. Ora siede sulla cat­tedra dove aveva iniziato. Ma poi il sogno del volo spa­ziale lo portava las­sù quando la Nasa apriva la strada an­che agli scienziati. «E fui davvero feli­ce di essere scelto nell’equipaggio che doveva ripara­re Hubble nel dicembre 1993». Lanciato tre anni prima, il grande telescopio spaziale ri­velava un difetto allo spec­chio: non riusciva a vedere lontano vanificando, quindi, lo scopo per cui era stato co­struito. In meno di tre anni al­lo Space Telescope Science In­stitute allora diretto da Riccar­do Giacconi, progettavano de­gli «occhiali», un complesso sistema di lenti correttive chia­mato Costar che installato al­l’interno di Hubble gli avreb­be restituito la vista. Jeffrey Hoffman, l’astronauta-astro­nomo partecipava all’impresa diventandone il principale protagonista. E Hubble torna­va a «riveder le stelle». Negli anni seguenti fu un susseguir­si di scoperte capaci di riscri­vere importanti capitoli del­l’astronomia. E per altre tre volte il telescopio era oggetto di visite da parte degli astro­nauti per cambiare qualche pezzo consumato o sostituire strumenti con altri più avanza­ti. Lunedì partirà l’ultima spedizione con lo shuttle At­lantis per rimetter­lo a nuovo. Adesso è così acciaccato da non essere utiliz­zabile. Il lavoro da compiere è compli­cato e rischioso tan­to da essere defini­to dall’astronauta John Grunsfeld, che in questa mis­sione segue le or­me di Jeffrey, «co­me un’operazione al cervello». «Sarà certamen­te ardua – nota Hoffman – perché lassù succedono talvol­ta cose non previste per le qua­li non si è addestrati. Durante la riparazione non riuscivo, ad esempio, a chiudere il por­tello di Hubble che protegge­va alcuni apparati. Il gelo co­smico lo aveva paralizzato. Si dovette utilizzare, improvvi­sando, uno strumento dise­gnato per scopi diversi ma al­la fine ci riuscimmo. Nel caso contrario, questa apparente banalità avrebbe impedito di impiegare il telescopio. I diffi­cili momenti non sono stati pochi, con pannelli solari che non si riavvolgevano e piccole scatole elettroniche che sfug­givano dalle mani». La difficoltà di quel primo intervento era considerata ta­le da ipotizzare inizialmente persino una missione per ri­portare a terra Hubble, siste­marlo in laboratorio e poi ri­lanciarlo. «Ma sarebbe stato al­trettanto complicato e soprat­tutto costoso e quindi l’idea venne abbandonata preferen­do la riparazione in orbita». Poi piovvero le scoperte. «Si, e furono straordinarie – ricorda Hoffman – perché aiutarono a definire esatta­mente l’età dell’universo a 13,7 miliardi di anni e si cattu­rò l’immagine più lontana del cosmo in cui si vede la forma­zione delle prime galassie. Ma Hubble permise pure di stu­diare le conseguenze dell’esi­stenza dell’energia oscura e di recente ha raccolto la prima immagine di un pianeta extra­solare attorno ad un’altra stel­la mentre prima analizzava le atmosfere di altri pianeti extra­solari ». In quest’ultima missione di 12 giorni gli astronauti in cin­que passeggiate cosmiche avranno un lungo elenco di compiti tra cui la sostituzione di un computer e dei sei giro­scopi fuori uso attraverso i quali punta con precisione sul­l’obiettivo, il cambio delle tre batterie nickel-idrogeno e la riparazione di due strumenti scientifici. Ma poi ne porteran­no di nuovi come lo spettro­grafo COS e installeranno nuo­vi sensori. «Se tutto andrà bene avre­mo un telescopio spaziale pra­ticamente rinnovato e settan­ta volte più potente rispetto al­le sue origini – commenta Hoffman ”. Ciò gli consenti­rà di scrutare ancora il cielo per sei-sette anni portandoci al momento in cui la Nasa lan­cerà il suo succes­sore, lo Webb Tele­scope. Webb sarà diverso perché scruterà le profon­dità nell’infrarosso mentre Hubble è un telescopio otti­co. Ma continuerà il suo lavoro andan­do oltre portando il nostro sguardo ancora più lontano nel tempo quando si sono formate le prime galassie esa­minando quel mon­do primordiale in dettaglio». Tutto però è da conquista­re. Questa ultima missione era giudicata tanto a rischio che nel 2004 l’allora ammini­­stratore della Nasa O’Keefe la cancellava. Ci fu una solleva­zione da parte degli astrono­mi e il successore Griffin la ri­mise in pista dopo un ennesi­mo esame degli esperti della sicurezza che definirono il ri­schio «alto ma accettabile». E nonostante il costo elevato di quasi un miliardo e mezzo di dollari (500 milioni per il volo dello shuttle più altri 887 per riparazioni e strumenti). «Se non sarà un successo Hubble andrà fuori gioco. Il lavoro da compiere è davvero eccitante e sono convinto che ce la fa­ranno », nota fiducioso Hoff­man lasciando percepire nel tono delle parole un filo di no­stalgia: gli piacerebbe essere di nuovo lassù ad affrontare la sfida. Lo shuttle Atlantis (che a bordo porterà una copia del cannocchiale di Galileo Gali­lei preparata dall’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze) salirà a 600 chilometri do­ve staziona Hubble e lo agguanterà con il braccio robo­tizzato ancorando­lo nella stiva. Se durante il lancio lo shuttle subisse ma­lauguratamente qualche danno non potrà rifugiar­si sulla stazione spaziale internazio­nale perché troppo lontana e su un’or­bita diversa. Per questo a Cape Ca­naveral è già sulla rampa l’altro shuttle Endea­vour pronto a partire per ri­portare a casa gli astronauti. Ma gli astronauti non pensa­no ai pericoli. «Se avessi pau­ra non avrei fatto l’astronau­ta » dice Jeffrey Hoffman che dopo il ritiro è stato anche am­basciatore della Nasa a Parigi. «Adesso dopo aver contribui­to a salvare Hubble – conclu­de – sono felice di insegnare raccontando ai giovani le me­raviglie dell’esplorazione spa­ziale ».