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 2009  maggio 08 Venerdì calendario

SBAGLIA CHI PENSA SOLO

All’INFLAZIONE - L’inflation targeting è fallito? Le Banche centrali in buona parte sono riuscite a evitare di finire sul banco degli imputati in questa crisi. Ma questa assoluzione è meritata?
Appena cinque anni fa Ben Bernanke, attuale presidente della Federal Reserve, pronunciando un discorso sulla "Grande Moderazione", il declino della volatilità dell’inflazione e della produzione nei vent’anni precedenti, ne approfittava per mettere in risalto il ruolo benefico di una politica monetaria migliorata. I banchieri centrali si sentivano fieri di se stessi. Ma il risveglio è stato brusco e oggi devono fare i conti con la recessione più profonda dagli anni 30, un sistema bancario tenuto in vita dai governi con la respirazione artificiale, e il pericolo di deflazione. Come ha fatto ad andare tutto così storto?
Non è una faccenda di poco conto. Nell’arco di quasi trent’anni, governanti e studiosi si sono convinti sempre più di aver trovato, nell’inflation targeting, il Santo Graal della moneta a corso forzoso. Era stato un lungo viaggio dai tempi del gold standard del XIX secolo,
passando per il ripristino del gold-exchange standard degli anni 20, il caos monetario degli anni 30, il sistema di tassi di cambio regolabili di Bretton Woods degli anni 50 e 60, la fine della convertibilità del dollaro in oro nel 1971 e il targeting
monetario degli anni 70 e 80.
Frederic Mishkin, professore alla Columbia, ex governatore della Federal Reserve e convinto sostenitore del targeting monetario, sosteneva, in un libro pubblicato nel 2007,che la lotta all’inflazione è una«strategia, completa d’informazioni, per la conduzione della politica monetaria». In altre parole, l’inflation targeting tiene conto di tutte le variabili rilevanti - tassi di cambio, prezzi delle azioni, prezzi delle case e prezzi delle obbligazioni a lungo termine - tramite il loro impatto sull’attività e sull’inflazione probabile. Ora che ci troviamo a fare i conti con l’implosione del sistema finanziario, quest’ottica non è più plausibile.
Altrettanto screditata è l’idea, collegata a questa e propugnata anch’essa dalla Fed, che sia meglio gestire le conseguenze delle bolle dei prezzi delle attività che farle scoppiare in anticipo. Il professor Meshkin scriveva che «è estremamente presuntuoso pensare che i funzionari pubblici, anche se sono banchieri centrali, ne sappiano di più dei mercati privati su quali dovrebbero essere i prezzi delle attività». Ben pochi oggi si curerebbero di una presunzione del genere, di fronte ai costi delle crisi finanziarie provocate dalle bolle dei prezzi delle attività accompagnate da grandi espansioni del credito ai privati.
La compiacenza verso la Grande Moderazione ha portato prima a un Grande Svelamento e poi a una Grande Recessione. Il settore privato ha trattato il rischio con sufficienza. Ma lo stesso hanno fatto i policymaker.
E dunque quale ruolo ha giocato la politica monetaria? Ho individuato tre filoni critici, tutti collegati fra loro, rispetto alla politica seguita dalle Banche centrali.
Innanzitutto John Taylor dell’Università di Stanford,ex funzionario dell’amministrazione Bush, che sostiene che la Fed ha sbagliato perché ha mantenuto i tassi d’interesse troppo bassi all’inizio di questo decennio, ignorando la regola dettata dal suo omonimo, che mette in relazione i tassi d’interesse con l’inflazione e la produzione. Questo ha provocato il boom dell’immobiliare con successiva, catastrofica esplosione della bolla (si vedano i grafici).
Il professor Taylor sostiene anche che abbassando troppo i tassi la Fed avrebbe spinto anche le altre Banche centrali ad abbassare eccessivamente i loro, generando in questo modo altre bolle in gran parte del mondo. Guardando a posteriori, per fare un esempio, l’autonomia della Banca d’Inghilterra era molto minore di quanto quasi tutti ritenessero: più s’allargava il divario nei tassi d’interesse con gli Stati Uniti, più affluivano capitali vaganti. Questo ha provocato un abbassamento degli standard per l’elargizione del credito e di conseguenza una bolla creditizia.
Il secondo filone è quello di chi sostiene che le Banche centrali dovrebbero concentrarsi sui prezzi delle attività, a causa dei danni colossali provocati dai successivi tracolli. Come osserva Andrew Smithers della società londinese Smithers & Co., in un recente rapporto ( Inflation. Neither Inevitable nor Helpful,
30 aprile 2009), «consentendo le bolle speculative le Banche centrali hanno perso il controllo delle loro economie, facendo aumentare sia il rischio d’inflazione che quello di deflazione».
Dunque, quando i prezzi nominali delle attività e i titoli di credito a esse associati perdono il contatto con i redditi nominali e i prezzi di beni e servizi, è probabile che succeda una di queste due cose: o i prezzi crollano, col rischio di fallimenti di massa, depressione e deflazione; oppure i prezzi dei beni e dei servizi salgono fino a un livello coerente con i prezzi elevati delle attività, e in questo caso c’è l’inflazione. Sul breve termine, le Banche centrali spesso si fanno tentare da politiche monetarie non convenzionali, dagli effetti monetari imprevedibili (si vedano i grafici).
Infine gli economisti della scuola "austriaca" sostengono che l’errore è stato fissare i tassi d’interesse al di sotto del "tasso naturale". Questo, secondo Friedrich Hayek, era accaduto anche negli anni 20. Il risultato è un’allocazione sbagliata delle risorse, che genera anche una crescita esplosiva di credito malsano. E quando arriva un periodo di congiuntura negativa - come sosteneva l’economista americano Irving Fisher nel suo libro del 1933, La teoria delle Grandi Depressioni basata sui debiti e sulla deflazione- prende piede la deflazione, fortemente aggravata dalla caduta dei prezzi e dalla contrazione dei redditi.
A prescindere dalla tesi preferita, appare chiaro, a posteriori, che la politica monetaria è stata troppo rilassata. E il risultato è che adesso ci troviamo a dover fronteggiare due sfide: rimettere ordine nel disastro ed elaborare un nuovo approccio alla politica monetaria.
Nel primo caso abbiamo tre alternative: liquidazione, inflazione o crescita. Una politica di liquidazione procederebbe attraverso fallimenti di massa e il collasso di gran parte del credito esistente. una scelta folle. Una politica deliberata d’inflazione risveglierebbe le aspettative d’inflazione e condurrebbe inevitabilmente a un’altra recessione per poter ripristinare la stabilità monetaria. Resta quindi soltanto la crescita. fondamentale sostenere la domanda e tornare alla crescita senza alimentare un’altra bolla creditizia. Non sarà facile. per questo che non ci saremmo mai dovuti infilare in questo ginepraio.
Nel secondo caso, la scelta, sul breve termine, sarà sicuramente " targeting dell’inflazione rafforzato".
L’approccio della Fed improntato alla "gestione del rischio", che ha finito col dare una risposta eccessivamente asimmetrica agli shock economici negativi, verosimilmente finirà in disgrazia, mentre salirà in auge la politica del "mettere la prua al vento" ogni volta che i prezzi delle attività salgono rapidamente e a livelli eccessivamente alti, accompagnata da un approccio anticiclico "macroprudenziale" sui requisiti patrimoniali per quegli istituti di credito rilevanti per la tenuta del sistema.
Questa crisi imprevista è sicuramente un disastro per la politica monetaria. La maggior parte di noi - io tra questi - era convinta che finalmente avessimo trovato il Santo Graal. Ora sappiamo che era un miraggio. Questa forse è l’ultima chance per la moneta a corso forzoso. Se non si riuscirà a farla funzionare meglio di come ha fatto finora chissà cosa potrebbero decidere i nostri figli. Forse,per la disperazione,abbracceranno quella che io continuo a considerare l’assurdità dell’oro.