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 2009  maggio 08 Venerdì calendario

LE MEGALOPOLI - PER VOCE ARANCIO


Il fatto che l’influenza suina sia esplosa a Città del Messico – megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti - non è casuale. Come ripete l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, basta lavarsi bene le mani per evitare ogni problema. Ma per tre volte nel 2009 la somministrazione di acqua alla popolazione è stata interrotta: l’ultima per 36 ore tra 9 e 11 aprile. Motivo: da 56 anni le falde acquifere del sistema Cutzamala sono consumate a un ritmo cinque volte maggiore alla loro capacità di rinnovarsi, in più la stagione secca ha precipitato la crisi. Insomma: a Città del Messico c’è troppa gente e l’acqua non basta per tutti. Tantopiù che l’amministrazione locale da una parte l’ha sempre sprecata, mantenendo un’offerta pari a 350-375 litri ad abitante al giorno contro i 250 degli standard mondiali e i 150 consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità; dall’altra ha sempre tenuto poco alla manutenzione, col risultato che almeno il 94 per cento delle condutture sono al di sotto dei livelli igienici consigliabili.

«La quasi totalità della crescita demografica dei prossimi anni la vedremo nelle città, che dovranno confrontarsi con problemi drammatici come la povertà, la mancanza d’acqua potabile e di servizi igienici, oltre all’espansione senza regole delle bidonville» (Thoraya Ahmed Obaid, direttrice esecutiva dell’Unfpa, il fondo per la popolazione dell’Onu).

Un terzo della popolazione mondiale che vive nelle città si accatasta nelle bidonville.

Secondo l’ufficio statistico delle Nazioni Unite, le città hanno superato per la prima volta le campagne, per numero di abitanti, nel 2008, quando sono arrivate a ospitare 3,3 miliardi di persone (più della metà della popolazione globale). Secondo l’Università della North Carolina State e l’Università della Georgia, che studiano la crescita della popolazione terrestre, il sorpasso era già avvenuto il 23 maggio 2007 (in quella data – in base ai loro calcoli - le città contavano 3.303.992.253 abitanti, le campagne 3.303.866.404).

Ogni ora Mumbai cresce di 42 abitanti, Jakarta di 39, Dhaka di 50, Lagos di 58.

I demografi prevedono che, entro il 2030, sei su dieci abitanti del pianeta vivranno nelle aree urbane.

L’esplosione dei superagglomerati urbani ha obbligato gli specialisti delle Nazioni Unite a rivedere al rialzo, da 7 a 10 milioni di abitanti, la soglia necessaria per definire una megalopoli. Traguardo comunque temporaneo, visto che Shanghai ha già superato i 20 milioni di abitanti, Tokyo i 33 e New York si avvicina ai 22, già oltrepassati da Città del Messico e Seul.

Nel 1950 la popolazione urbanizzata dell’intero pianeta era di 736 milioni e 796 mila persone, negli anni 60 aveva superato il miliardo, nel 1970 era arrivata a un miliardo 331 milioni e 783 mila, nel 2000 a 2 miliardi 274 milioni 554 mila, nel 2005 a 3 miliardi 164 milioni 635 mila.


Chi vive nelle megalopoli rappresenta il 9% della popolazione mondiale, mentre il 51% dei cittadini mondiali abita centri di meno di 500 mila abitanti. Questa taglia – la più comune in Europa e Italia - secondo l’Ocse garantirebbe la migliore qualità della vita.

In Italia la popolazione urbana è passata dai 25 milioni e 485 mila persone del 1950 ai 39.652.000 del 2005. Nel 2010 gli italiani urbanizzati saranno 40 milioni e 354 mila, nel 2020 arriveremo a 41.558.000, nel 2050 a 44 milioni e 340 mila.

Negli anni Cinquanta le città con oltre un milione di abitanti erano meno di 20, oggi sono quasi 500.

La megalopoli più abitata del mondo è quella della grande Tokyo (che comprende più di 87 città satellite, incluse Yokohama, Kawasaki e Chiba): 35,7 milioni di abitanti.

I futuro delle città del mondo secondo l’Onu: 3 miliardi 494 milioni e 607 mila abitanti nel 2010; 4 miliardi 209 milioni 669 mila nel 2020; 4 miliardi 965 milioni 81 mila nel 2030; 5 miliardi 708 milioni 869 mila nel 20040; 6 miliardi 398 milioni e 291 mila nel 2050.

Tra le motivazioni di chi, nei Paesi in via di sviluppo, si sposta verso i grandi centri, magari accettando di vivere in uno "slum": la speranza di mobilità sociale; la ricerca di salari più alti; la possibilità di accedere a servizi sanitari spesso inesistenti nelle campagne.

«In passato le città hanno tentato di limitare e respingere la migrazione dalle campagne, ma con esiti disastrosi. Oggi questa è una grande occasione perché è proprio nelle città che si può sperare di vincere quella partita fondamentale per la società moderna che è la realizzazione degli obiettivi di sviluppo del Millennio, e in particolare quello di dimezzare il numero dei poveri nel mondo entro il 2015» (Thoraya Ahmed Obaid, direttrice esecutiva dell’Unfpa, il fondo per la popolazione dell’Onu).


«E’ imperativo che l’esplosione demografica nei Paesi in via di sviluppo sia accompagnata da netti progressi socioeconomici. A questo fine sarà necessario che il tasso di fertilità in questi Paesi cali in maniera molto significativa» (Hania Zlotnik, direttrice della Divisione della popolazione dell’Onu).

L’Europa conta già il 74% di abitanti urbanizzati, mentre Asia e Africa sono ancora al 41 per cento.

Secondo le previsioni dell’Onu, in Asia la popolazione delle città crescerà a un ritmo medio del 2,1% all’anno da qui al 2020. Con una certa differenza a seconda dei Paesi.

In Malaysia quasi il 70% della popolazione vive già in città: un tasso addirittura più alto di quello del Giappone e superato in Asia solo da Corea del Sud, Hong Kong o Singapore. Anche nelle Filippine i residenti in città sono un numero considerevole: oltre il 60% della popolazione totale. E persino quelli dell’Indonesia (50%) superano i vicini di Cina (40%) e India (30%).

La società di servizi finanziari Ubs ha analizzato una ventina di aziende asiatiche che trarranno profitto dalla corsa all’urbanizzazione. In India, ad esempio, dove già vive nelle città il 30% della popolazione, la società Acc, che fa parte del principale gruppo indiano del cemento, oggi produce 40 milioni di tonnellate all’anno, ma già dal dicembre 2009 la sua capacità produttiva salirà a 51 milioni. A New Delhi, dove il mercato residenziale è destinato a crescere del 20% all’anno da qui al 2011, mentre quello degli immobili commerciali addirittura del 60 per cento, imprese edili come l’indiana L&T si fregano le mani. E ancora: entro il 2012 il Governo dovrà spendere 100 miliardi di dollari per approvvigionare d’acqua il Paese, dall’irrigazione alle fogne, per la gioia di società come la Ivrcl Infrastructure and projects. In Cina, invece, la Yanzhou Coal sarà contenta di sapere che il 73% del nuovo fabbisogno di elettricità del Paese da qui al 2020 verrà garantito dal carbone, della cui lavorazione si occupa. Una volta trasferitisi in città, i nuovi abitanti avranno anche bisogno di connessioni telefoniche mobili per tenersi in contatto con i parenti lontani, o la pay tv per passare le serate, o ancora di prestiti per godersi la civiltà dei consumi. Tra le aziende in pole position ci sono la cinese China Mobile e l’indiana Bharti Airtel per le telecomunicazioni; la catena pechinese di elettrodomestici Gome; oppure i colossi bancari: Bumi in Malaysia, Icici in India, Bank Central Asia in Indonesia e Kasikornbank in Thailandia.


Il continente asiatico ha più di 160 centri fino a 5 milioni di abitanti, destinati a diventare oltre 240 entro il 2015.

La più grande operazione di urbanizzazione della storia umana è quella promossa dalla Cina, dove il governo, agli inizi del Duemila, ha stabilito di spostare nelle città 600 milioni di contadini (circa la metà di tutta la popolazione cinese) nel giro di 25 anni. Da allora, ogni anno, 13 milioni di persone si sono trasferite dalle campagne alle città. Ad oggi vive in aree urbane il 40% della popolazione cinese.

Popolazione cinese: 1 miliardo e 300 milioni.
 Popolazione urbana: 540 milioni (170 milioni nel 1978). Numero delle città cinesi: 666 (13 nel 1978).

Per effetto della recessione globale, in Cina hanno già perso il lavoro più di 20 milioni di lavoratori immigrati che dalle campagne si erano trasferiti a lavorare nelle zone urbane industrializzate. Secondo i dati resi noti dal ministero dell’Agricoltura, sui 130 milioni di lavoratori immigrati il 15,3% ha perso il posto ed è tornato a risiedere nelle regioni rurali d’origine. Se si aggiungono coloro che erano già disoccupati, e la crescita demografica naturale della forza lavoro, si arriva a un totale di 27 milioni di disoccupati solo per le zone rurali.

L’impoverimento degli operai licenziati ha un effetto a catena sulle famiglie contadine: la banca centrale stima che il 65% del reddito nelle zone rurali veniva dalle rimesse degli emigrati.

«I licenziamenti collettivi avvengono senza regole: migliaia di padroncini originari di Hong Kong e Taiwan hanno fatto bancarotta e sono spariti senza lasciare tracce, hanno chiuso le fabbriche defraudando gli operai di molte mensilità di salari arretrati. Una volta senza lavoro, quegli operai venuti dalle campagne non hanno indennità di disoccupazione né assistenza sanitaria, i loro figli non hanno diritto all’istruzione gratuita. Sono cittadini di serie B che non hanno più nulla da perdere, un serbatoio esplosivo di instabilità sociale. La loro esasperazione può saldarsi con un altro fronte di disagio: la crescente disoccupazione intellettuale, che colpisce le giovani generazioni istruite, i figli del ceto medio nelle grandi città. Un recente studio del governo stima a un milione e mezzo il numero di giovani laureati senza lavoro nelle zone urbane. Perfino i mass media cinesi, controllati dalla propaganda di Stato, cominciano a dare visibilità a questo fenomeno. I telegiornali trasmettono immagini delle job-fair, le fiere di reclutamento organizzate dalle aziende, dove la massa dei giovani diplomati e laureati cresce a vista d’occhio mentre le opportunità di assunzione si fanno sempre più scarse. La fine del ”sogno cinese” per le giovani generazioni urbane è destabilizzante per il regime, che negli ultimi decenni ha costruito lo zoccolo duro del suo consenso proprio nei ceti medi» (Federico Rampini su ”la Repubblica” del 3 febbraio).

Già sul finire del 2008 la regione industriale del Guangdong, nel sud della Cina, è stata sconvolta da scontri violenti con la polizia.


«I leader di Pechino si sono dati l’obiettivo cruciale: raggiungere un tasso di crescita dell’8% nel 2009, dopo il brutale rallentamento dell’ultimo trimestre 2008 (quando il Pil è cresciuto solo del 6,8%). Quel traguardo dell’8% è considerato il minimo indispensabile per arginare l’aumento della disoccupazione. Perciò durante la sua visita ufficiale a Londra il premier cinese Wen Jiabao ha accennato alla necessità di varare una nuova manovra di spesa pubblica per sostenere la crescita, dopo quella già annunciata tre mesi fa e pari a circa 580 miliardi di dollari. Ma lo sforzo di spesa per rilanciare lo sviluppo comincia a lasciare il segno sullo stato delle finanze pubbliche. Alla fine del 2008 il bilancio dello Stato è passato in deficit per 111 miliardi di yuan (circa 16 miliardi di dollari). Il bilancio pubblico era stato in attivo per tutto il 2007 ed anche durante i primi 11 mesi del 2008, periodo nel quale era arrivato a segnare un saldo positivo di 1.224 miliardi di yuan» (Federico Rampini su ”la Repubblica” del 3 febbraio).


«Molti dei nuovi cittadini saranno poveri ma l’esperienza mostra che, qualsiasi siano le condizioni incontrate, chi arriva in città di rado poi la lascia» (Thoraya Ahmed Obaid, direttrice esecutiva dell’Unfpa, il fondo per la popolazione dell’Onu).