Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 08 Venerdì calendario

BIBBIE IN PASHTU ALLE BASI USA "SIAMO CACCIATORI DI ANIME"


Il cappellano in divisa parla in uno stanzone con le pareti gialline della base di Bagram, città militare costruita attorno a un vecchio aeroporto sovietico, avamposto cristiano nel mezzo di un Paese musulmano al 99,6%. I fedeli, soldati americani, sono seduti in cerchio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il predicatore cerca di scuoterli un po’: «Che fanno i ragazzi delle forze speciali? Danno la caccia agli uomini. Noi facciamo lo stesso come cristiani: noi diamo la caccia alle persone, per Gesù. Siamo i cani da caccia del Paradiso, portiamoli nel Regno dei cieli».
La scena è ripresa da un operatore, Brian Hughes, un documentarista free lance. L’occhio della telecamera scivola in un angolo, sotto una sedia c’è una pila di libri con la copertina blu. I soldati si prendono per mano, pregano. Poi uno si inginocchiano a raccogliere i libri, alcuni ancora dentro il cellofan. Sono Bibbie, tradotte in dari e pashtu. Il dari è la forma di persiano, elegante e un po’ retrò, parlata da quasi metà della popolazione afghana, il pashtu è usato da un altro 35 per cento.
Che fanno gli americani, portano Bibbie alla popolazione? Il sospetto è forte, ma stiamo parlando, a 40 chilomteri da Kabul, di proselitismo, incitamento all’apostasia. Reati che in molti Paesi musulmani, in Iran come in Arabia Saudita e in Afghanistan, sono passibili di pena di morte. Ne sa qualcosa il cristiano Abdul Rahman condannato a morte nel 2006, poi salvato da formidabili pressioni internazionali.
Nel primo capitolo del regolamento delle truppe Usa, il temutissimo General Order Number One, severo quasi quanto la sharia, un paragrafo proibisce «ogni attività di proselitismo di una religione, fede o pratica». Il cappellano lo sa e chiede: «Pensate che stiamo facendo proselitismo?». Un soldato risponde: « nel Generale Order Number One». Un sergente ribatte: «Non possiamo fare proselitismo, ma possiamo fare regali».
Per quei giri misteriosi nella Rete, il video finisce su Al Jazeera. E la frittata è fatta. L’ex e ancora influente primo ministro Ahmed Shah Ahmedzai chiede «un’inchiesta seria», protesta: «Ne va della sicurezza nazionale. Lo sanno quanto siamo tradizionalisti. C’è scritto nella Costituzione che nessuno può attentare all’Islam in Afghanistan». Deve intervenire il più alto in grado della Forze armate americane, l’ammiraglio Mike Mullen: «Non ho conosco i dettagli, ma posso assicurare che l’Us Army non promuove nessuna religione». Poche ore dopo, il portavoce dell’esercito, maggiore Jennifer Willis, precisa: «Le Bibbie era state inviate a un soldato dalla sua parrocchia di origine, ma non sono distribuite». Poi precisa ancora: «Sono state distrutte».
Non si sa quando è successo, ma con i taleban che minacciano il Papa, Karzai a colloquio con Obama, il rogo del Bibbie in persiano e pashtu era il prezzo da pagare, anche in un paese dove i tre quarti degli abitanti, e nove donne su dieci, non sono in grado di leggere, nemmeno il Corano.