Gabriele Beccaria, La stampa 6/5/2009, 6 maggio 2009
LE PROTEINE DELL’ETERNA SALUTE
C’è un nuovo continente in cui inoltrarsi, un decennio dopo l’annuncio del sequenziamento del Genoma umano, e uno degli esploratori è un Premio Nobel, Aaron Ciechanover, che, quando non studia al Technion - l’istituto israeliano di tecnologia di Haifa -, si sposta per il mondo a raccontare le avventure di quel cuore di tenebra del «Proteoma» che sta diventando il nuovo Eldorado della medicina.
«Dovremmo considerare l’Alzheimer come una specie di benedizione - dice con la paradossale semplicità che lo contraddistingue -. E’ la prova che la vita media continua ad allungarsi e rappresenta allo stesso tempo una sfida senza precedenti». Questa epidemia globale, insieme con altre malattie neurodegenerative come il Parkinson, che si aggiunge a mostri come il cancro e la fibrosi cistica, rappresenta l’altra faccia, altrettanto oscura, delle pandemie virali che fanno scricchiolare la nostra supremazia di specie. E se i cacciatori di virus corrono dietro le imprevedibili ricombinazioni di microscopiche dosi di materiale genetico, Ciechanover spia i prodotti del Dna - le proteine, appunto - e prepara la strada alle nuove generazioni di farmaci, addestrati a comportarsi come missili intelligenti, scegliendo quali bersagli molecolari colpire e quali trascurare.
Il Nobel, infatti, l’ha vinto nel 2004 per la scoperta della «degradazione proteica»: una molecola - l’ubiquitina - identifica le proteine che hanno fatto il loro lavoro e le elimina, portandole nei proteosomi, gli organuli cellulari che funzionano da «distruttori». Quando il processo si inceppa, la spazzatura biologica si accumula e, creando una specie di discarica abusiva, avvelena tutto. Conseguenza: lo scatenamento di molte delle patologie che ossessionano il mondo ricco.
Professore, le promesse sono esaltanti, ma i fatti?
«Io sono ottimista e l’opinione pubblica deve capire bene la questione. I farmaci arriveranno, ma con gradualità. La scienza è una realtà stratificata: ci sono le conoscenze di base, su cui lavora il mio gruppo, poi gli studi applicati, che si riferiscono alle malattie, e infine lo sviluppo dei farmaci. E’ una catena, in cui nessun anello esiste senza gli altri».
Un esempio di farmaco già disponibile?
«E’ il Velcade, che tratta i pazienti affetti da mieloma multiplo, un tumore delle cellule plasmatiche nel midollo spinale».
Cinque anni dopo l’individuazione della «pulitura» delle cellule, qual è la domanda ancora senza risposta?
«Sappiamo che il processo è potente, perché cancella dall’organismo le proteine non più funzionali. Adesso dobbiamo scoprire i diversi modi per neutralizzare le aggregazioni ”tossiche” ed eliminarle. Significa riuscire a contrastare il problema base di molte malattie sia infiammatorie sia neurodegenerative, dall’Alzheimer all’Huntington».
Avete capito i motivi perché le cellule non vengono bonificate?
«Non sappiamo ancora la causa, se si tratti di ragioni legate all’invecchiamento oppure a danni genetici. Il quadro è tutt’altro che chiaro. E’ chiaro invece lo scopo: se puntiamo, com’è naturale, a curare, ancora più importante è l’altro obiettivo, vale a dire la prevenzione. Nella medicina, oggi, la logica è quella di impedire che le malattie si manifestino, per esempio diagnosticando in tempo i casi di chi è più a rischio. In sintesi: solo svelando i meccanismi delle malattie potremo curare e prevenire».
La decifrazione del Genoma ha suscitato attese enormi, in parte deluse. Ora si prosegue con il Proteoma: si rischia la stessa disillusione?
«Genoma e Proteoma sono come grandi biblioteche: averle è importante, ma sono inutili a meno di non leggerle. Adesso è tempo di consultarle, anche se è un processo più laborioso della scoperta delle biblioteche stesse».
I geni sono circa 30 mila. E le proteine?
«Sono 23 mila. Le altre sono combinazioni, come fratelli e sorelle».
Quante ne conosciamo?
«Di alcune migliaia sappiamo molto e di altre poco, ma nella scienza non esiste la parola ”tutto”. D’altra parte, alcune sono più importanti e altre meno».
Qual è la prossima sfida del suo laboratorio?
«Comporre il puzzle. Abbiamo i pezzi degli scacchi, dai pedoni agli alfieri, ma custoditi in uno scaffale, anziché disposti sulla scacchiera. Si tratta di capire la funzione di ogni proteina e le sue interazioni».
Sta emergendo un quadro enormemente complicato: non la preoccupa?
«Mi deludono gli scienziati che aggiungono complicazione a complicazione: l’insieme, invece, è più ottimistico. Certo, la natura non è semplice, ma non prendetevela con me, semmai con dio, chiunque sia. Basta considerare gli sviluppi della medicina: a inizio Novecento si viveva mezzo secolo, ora si è saliti a 80 anni. Il merito è della scienza: se si moriva poco di cancro o l’Alzheimer era pressoché sconosciuto, è perché si moriva giovani. L’allungamento della vita, quindi, si trasforma in una sfida e la ricerca dev’essere considerata in modo realistico: scava ovunque e trova sempre nuovi tunnel e caverne, ma non siamo costretti a guardare in tutti».
In Occidente crescono i nemici della scienza e genetica e bioingegneria suscitano molti sospetti: lei che idea si è fatto?
«La scienza resta la lingua migliore per attenuare le tensioni fondamentaliste, ma i ricercatori devono comunicare di più. Spesso non spiegano abbastanza ciò che facciamo. E invece abbiamo bisogno del dialogo per sottolineare i nostri successi, ma anche i nostri limiti. E’ difficile suscitare fiducia in qualcosa che non si lascia capire».