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 2009  maggio 05 Martedì calendario

L’ANELLO DEBOLE DEL LAVORO


Mancava soltanto il bollino primaverile di Bruxelles per avere conferma di ciò che purtroppo è noto da mesi: per rintracciare una situazione economica più depressa di questa bisogna tornare indietro al 1944-45. In quei due anni il Prodotto interno lordo italiano crollò del 40,5%. Un risultato senza eguali in Europa. Nemmeno nella Germania distrutta dai bombardamenti, dove il Pil era calato del 26,3%.
Eppure nella recessione «più profonda e diffusa del dopoguerra», per usare le parole della Commissione europea, c’è chi è messo peggio di noi.
Per esempio la stessa Germania, con un Prodotto interno in caduta del 5,4%, un punto in più rispetto all’Italia. Per esempio la Spagna, dove la recessione, forse meno dura quest’anno, continuerebbe anche nel 2010: contrariamente all’Italia. E con una disoccupazione al 20,5%. Più del doppio della nostra, stando sempre alle stime dell’Unione europea.

Anche sul versante dei conti pubblici le cose qui andrebbero meglio che altrove. Il rapporto fra deficit pubblico e Pil, che secondo gli accordi di Maastricht non dovrebbe superare il 3%, sarà quest’anno nella media di Eurolandia pari al 5,3%, vale a dire 0,8 punti più dell’Italia. Il nostro debito pubblico in percentuale del Pil resterà pur sempre il più alto fra i Paesi che fanno parte della moneta unica europea. Ma la sua crescita (9,5% dal 2008 al 2010) sarà nettamente inferiore a quella del debito pubblico tedesco (17,4%), olandese (19,1%), francese (28,3%), britannico (57,1%) e spagnolo (59,7%). Un andamento forse scontato, considerando che il governo italiano non ha dovuto stampare montagne di titoli di Stato per salvare le banche o le industrie, e che quindi l’aumento del rapporto fra debito e Pil è soprattutto la conseguenza dell’indebolimento dell’economia.

Fatto sta che nel 2010, con ogni probabilità, l’Italia scenderà dal terzo al quarto posto fra i Paesi con il debito in valore assoluto più elevato del mondo cedendo alla Germania la poco invidiabile posizione che occupa ora. A questo si aggiunga, come più volte ha rimarcato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che il debito pubblico italiano ha nel massiccio risparmio dei privati una contropartita che nessun Paese può vantare. Altro segnale: al livello più basso da decenni, l’inflazione è comunque doppia di quella media europea e in aprile ha ripreso leggermente a crescere.

Sintomo che i consumi degli italiani non sono precipitati. Infine, l’Italia è, come la Germania, un Paese ancora a vocazione manifatturiera, per cui la ripresa dell’economia reale potrebbe farsi sentire prima e con più forza rispetto alla Gran Bretagna, la cui economia dipende essenzialmente dalla finanza, o alla Spagna, messa in ginocchio dalla bolla immobiliare.

Non che per questo ci sia da festeggiare. Le ultime stime dell’Unione europea tracciano uno scenario decisamente peggiore nei confronti di pochi mesi fa. Vero è che il calo del Pil del 2009 non è confrontabile con quello del periodo nero della guerra: sarà infatti cinque volte inferiore a quello del 1945, che fu pari al 21,7%. Ma è altrettanto vero che negli unici due anni di recessione vera del periodo post bellico la contrazione del Pil era stata di entità ben diversa.

Nel 1975, annus horribilis della crisi industriale, il calo fu del 2,1%. Nel 1993, l’anno della bufera di Tangentopoli, si registrò una flessione dello 0,9%.

Perciò, niente di paragonabile.

Poi c’è il capitolo dell’occupazione, l’aspetto più preoccupante. Il prossimo anno il numero dei disoccupati potrebbe raggiungere il 9,4% delle forze di lavoro. Le previsioni dell’Unione europea non dicono nulla sulla distribuzione territoriale di questo dato. E se è presumibile che in determinate aree geografiche, come al Sud, la situazione sia particolarmente critica, non mancano tensioni anche in zone del Paese dove finora c’è sempre stata praticamente la piena occupazione. il caso, per esempio, dell’Emilia-Romagna, dove da mesi le piccole imprese che lavorano su commesse delle grandi multinazionali, soprattutto tedesche, sono in seria difficoltà.

In conversazioni informali il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi aveva manifestato già alla fine dello scorso anno grandi timori per le possibili ripercussioni della crisi sulla fascia dei precari, che è andata ingigantendosi sempre più. Negli ultimi anni i posti di lavoro «flessibili» hanno dato un contribuito decisivo alla riduzione progressiva della disoccupazione: un fenomeno iniziato nella seconda metà degli anni Novanta con i provvedimenti del cosiddetto pacchetto Treu (dal nome del ministro del Lavoro Tiziano Treu) e proseguito senza interruzione fino allo scorso anno. Ora il brusco aumento, dovuto principalmente proprio alla perdita dei posti di lavoro non garantiti. Va precisato che il precariato non è una caratteristica soltanto italiana. Il fatto è che in Italia le garanzie per i precari che perdono il lavoro sono modeste.

Certamente insufficienti a fronteggiare una situazione che richiederebbe una radicale e rapida riforma degli ammortizzatori sociali.