Sergio Romano, Corriere della sera 5/5/2009, 5 maggio 2009
I PIRATI SONO UN SINTOMO LA MALATTIA IN SOMALIA
Ho frequentato la Somalia come direttore alla Commissione europea e per una Ong ho seguito le tristi vicende somale da Nairobi, ove si è trovato, per qualche tempo, il governo federale transitorio somalo. Occorre ricordare che la Somalia ha la costa più estesa dell’Africa, con 3.700 km.
Sulle coste vivevano e vivono centinaia di pescatori che sopravvivevano grazie alla pesca. Dopo la caduta del governo del presidente Siad Barre, nel 1991, e il fallimento della missione delle Nazioni unite, «Restore Hope», sostenuta dagli Usa, nel 1992-93, i signori della guerra si sono divisi il territorio e le poche risorse della Somalia (pesci, cammelli, banane, datteri, contrabbando). I pescatori somali sono stati colpiti due volte: dalla pesca illegale di pescherecci di tutto il mondo e dalla criminale discarica nelle acque della Somalia, non protette, di scorie industriali, di materiali inquinanti, forse anche scorie nucleari, come attestano le malattie che hanno colpito i pescatori e le loro famiglie, specie dopo lo tsunami del 2005, che ha fatto affiorare molti dei fusti velenosi. I pescatori somali si sono organizzati per sopravvivere con modeste azioni di arrembaggio, diventate dal 2006 vere azioni di pirateria, molto redditizie con l’aiuto della diaspora somala e degli islamisti. Lei ha ragione nell’affermare che «i pirati sono banditi e ladri, non assassini (...) e non possiamo limitarci a combattere i pirati sul mare». Non si possono neanche affondare i barchini dei pirati quando essi detengono circa 14 navi e 250-300 ostaggi e potrebbero porre in atto la minaccia di giustiziarne alcuni o di affondare una nave. Intervistato dalla Bbc (23 aprile 2009) un giovane pirata ha ricordato che gli occidentali insorgono perché il loro commercio navale è minacciato, ma che cosa fanno per evitare che centinaia di somali che cercano di emigrare verso lo Yemen o l’Europa, per sfuggire alla fame e alla guerra, muoiano in mare?
Con un attacco delle forze speciali francesi è stato liberato lo yacht «Ponent», ma è rimasto ucciso il proprietario e sono rimasti feriti il suo bambino e un amico. Due pirati sono stati uccisi e quattro catturati.
Attaccare una nave passeggeri o da trasporto è più difficile per i pirati, ma se cade nelle loro mani è quasi impossibile non negoziarne la liberazione.
Una conferenza internazionale, tenutasi il 23 aprile a Bruxelles, ha promesso 213 milioni di dollari per aiutare il nuovo governo del presidente Sheikh Sharif prima che il Paese, moderatamente sunnita in passato, ritorni a essere governato dagli islamisti radicali che già avevano imposto a Mogadiscio la legge coranica, ma avevano assicurato sei mesi di ordine alla capitale nel 2006.
Giovanni Livi
Bruxelles
Caro Livi,
La sua lettera è eccezionalmente lunga, ma fornisce molti fatti e ha il merito di dare una risposta convincente a quanti mi hanno scritto negli scorsi giorni per ribadire la necessità di una dura risposta militare. Occorre proteggere il traffico internazionale e usare, se necessario, le armi, ma non è possibile trattare la pirateria alla stregua di un fenomeno esclusivamente criminale. Non voglio fare inutili processi all’Occidente. Ma vi sono responsabilità politiche di cui occorre essere consapevoli.
La lista delle responsabilità comincia con l’operazione «Restore hope» decisa da Bush sr. nelle ultime settimane della sua presidenza. Quando entrò alla Casa Bianca, agli inizi del 1992, Bill Clinton ereditò l’iniziativa del predecessore e cercò di liquidare la faccenda in pochi mesi con la cattura di Mohammed Aidid, il più audace fra i signori della guerra. Ma le truppe americane caddero in una imboscata, persero cinque elicotteri e 18 ranger, ebbero 78 feriti e lasciarono nelle mani dei somali parecchi prigionieri. Clinton capì che l’operazione era meno semplice del previsto e che la volubile opinione pubblica americana aveva smesso di appassionarsi per la tragedia somala. Nel giro di pochi mesi le forze degli Stati Uniti, seguite alla spicciolata da quelle degli altri Paesi che avevano risposto all’appello dell’Onu, se ne andarono. Abbandonata a se stessa la Somalia sprofondò nell’abisso dell’anarchia e della criminalità.
Gli Stati Uniti ricominciarono a occuparsi della Somalia nel 2006 quando un movimento islamista radicale, le Corti islamiche, riuscì a impadronirsi di Mogadiscio. Finanziarono e armarono i vecchi signori della guerra, persuasero l’Etiopia a intervenire con le sue forze armate, e riuscirono, per procura, a scacciare gli islamisti dalla vecchia capitale del Paese. Peccato che l’Etiopia sia considerata dai somali una sorta di nemico ereditario e che il breve regime delle Corti islamiche sia stato il solo durante il quale i somali abbiano goduto di una certa sicurezza. Oggi la Somalia è ancora una «pelle di leopardo» dove alcune zone sono governate da un evanescente governo di transizione, altre dagli islamisti, altre ancora dai clan e dalle milizie dei suoi baroni feudali. difficile continuare a pensare che il problema della Somalia siano i pirati.