Sergio Romano, Corriere della sera 6/5/2009, 6 maggio 2009
IL NAZIONALISMO SIONISTA E LA TERRA IRREDENTA
Le scrivo in merito alla sua risposta sul Corriere della Sera del 29 aprile riguardante il sempiterno problema israelo-palestinese.
Considero la soluzione «due Stati per due popoli» il minore dei mali. Mi permetto le seguenti considerazioni che lei ben conosce, ma non la maggioranza dei lettori.
1) Il Grande Israele. Lo Stato d’Israele, negli attuali suoi confini (26.500 mq) è di poco più grande della regione Piemonte. Il «Grande Israele» auspicato dai più accesi nazionalisti sionisti, cioè con l’incorporazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, arriverebbe a circa 40 mila metri quadrati, a malapena due regioni italiane. Ma non è praticabile per la comprensibile opposizione degli arabi.
2) Il mondo arabo-mussulmano occupa vastissimi territori ed è strettamente unito da una lingua pressoché comune. Vige maggiormente il concetto di religione comune che non quello delle nazionalità spezzettate. Si divide facilmente in ostilità di tipo tribale, ma è solidale e unito nell’odio per gli ebrei «usurpatori» in Palestina.
3) Il popolo palestinese, come termine nazionale, non esisteva affatto prima del 1918. Era parte del blocco della galassia ottomana mediterranea. 4) Il popolo ebraico, se così si può definire, risale ad oltre tremila anni fa e la sua culla è il Medio Oriente. Gli ebrei (non più di 50 mila in Italia e circa 13 milioni nel mondo) sono sgraditi o invidiati, se non perseguitati a intermittenza un po’ ovunque da duemila anni. 5) Il sionismo, col ritorno degli ebrei in una Palestina quasi derelitta e la creazione dello Stato d’Israele, è riuscito ad arginare i danni dell’antisemitismo. Israele non è uno stato perfetto, ha le sue pecche. Ma quale stato può scagliare la prima pietra?
Stanley Feiwell
Milano
Caro Feiwell,
Il sionismo, a cui si deve la creazione dello Stato d’Israele, è uno dei più tardivi fenomeni nazionali dell’Ottocento. Nasce negli anni Novanta del secolo mentre gli ebrei dell’Europa centroccidentale sono decisi a cogliere l’occasione offerta dalle conquiste liberali dei decenni precedenti e a integrarsi pienamente negli Stati di cui sono divenuti cittadini. Ma il caso Dreyfus, scoppiato là dove gli ebrei avevano conquistato la loro prima emancipazione, turba questo processo. Un giornalista austro- ungarico assiste alla degradazione del capitano alsaziano e giunge alla conclusione che anche gli ebrei, come i greci, gli italiani, i tedeschi, i serbi, i romeni e i bulgari, abbiano diritto a una patria. Theodor Herzl è liberale, tollerante. Vuole uno Judenstaat, uno Stato per gli ebrei, ma sa che non tutti gli ebrei vorranno lasciare il Paese in cui abitano e li esorta a fare una scelta netta e definitiva: partire o integrarsi. Pensa alla Palestina, ma è pronto a prendere in considerazione altre terre.
Diverso, invece, è l’animo dei sionisti dell’Europa centrorientale, dove l’ebraismo è demograficamente forte ma politicamente oppresso e vittima di continue discriminazioni.
Gli Ost-juden, gli ebrei dell’Est, si allontanano dal tronco originario delle idee di Herzl per elaborare un nazionalismo romantico di ispirazione tedesca fondato sui principi del sangue e della terra (blut und boden). Per questi seguaci radicali del fondatore, la Palestina non è una opzione: è la terra dei padri, la Terra promessa, un diritto irrinunciabile. Poco importa che questa terra sia stata abitata per molti secoli da altri popoli: il titolo di proprietà è biblico, quindi indiscutibile, inattaccabile. la sindrome, con un sovrappiù religioso, della «terra irredenta», causa di una dozzina di guerre europee dalla seconda metà dell’Ottocento alle due catastrofi del Ventesimo secolo.
Sino alla Grande Guerra i sionisti radicali furono pochi e guardati con grande sospetto dai loro correligionari in Europa. E tali sarebbero rimasti se la guerra civile russa dapprima e la follia omicida di Hitler poi non avessero creato la massa critica che permise la nascita dello Stato. Ma esisteva pur sempre un problema palestinese a cui l’Onu, con la risoluzione del 1947, dette una risposta che gli indigeni e il mondo arabo considerarono inaccettabile.
Alla luce di queste considerazioni, caro Feiwell, non è difficile comprendere perché alcuni Paesi abbiano assistito con molti timori alla nascita di Israele e perché la grande maggioranza degli ebrei abbia preferito osservare dall’esterno il decollo del nuovo Stato. Sapevano quali effetti la politica della terra irredenta avesse avuto nel continente europeo e temevano la ripetizione nel Vicino Oriente di ciò che era accaduto in Europa. Queste preoccupazioni sono divenute ancora più giustificate quando abbiamo costatato che il sionismo «sangue e terra» dominava ormai una parte consistente della politica israeliana e si proponeva, con la strategia degli insediamenti coloniali, l’avvento di un Grande Israele.
Una precisazione, caro Feiwell, a scanso di equivoci. Non credo al titolo di proprietà biblica, ma so che Israele, grazie alle guerre vinte e alla straordinaria gestione economica del territorio, ha conquistato il diritto di esistere. Ma gli errori commessi, se non verranno rapidamente corretti, rischiano di pregiudicare il suo futuro.