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 2009  maggio 06 Mercoledì calendario

PARTITE IVA, UNA VITA SPERICOLATA


Il numero sicuramente fa impressione e non c’è alcun confronto possibile con altri Paesi del G8: a fine marzo 2009 risultavano aperte in Italia 8,8 milioni di partite Iva. Poco meno dell’intera popola­zione della Lombardia, anziani e bambini inclusi. Un esercito che non si è fatto mettere in fuga nemmeno dalla Grande Crisi. Le ultime stime provenienti dal­l’Agenzia delle Entrate ci dicono infatti che nei soli primi quattro mesi di quest’anno c’è stato un ulterio­re saldo positivo, le aperture hanno nettamente supe­rato le cessazioni d’attività: più 177 mila. Il ministro Giulio Tremonti parlandone nei giorni scorsi a Mila­no l’ha catalogato come un indice di vitalità, un altro segno della capacità di reazione dimostrata dal siste­ma Italia.

Ma chi sono i nostri connazionali che sfidando Prodotto interno lordo in caduta verticale e recessio­ne lunga hanno comunque deciso di mettersi in pro­prio, di sfidare i marosi del mercato? Il maggior con­tributo di nuove start up viene dalle attività immobi­liari e dai servizi alle imprese (+51 mila) ma ci sono 20 mila ditte individuali in più nell’agricoltura e 22 mila nelle costruzioni. Di più non è possibile saper­ne, vuoi perché si tratta di dati recentissimi vuoi so­prattutto perché quello delle partite Iva è un pianeta ancora poco conosciuto. Si è fatto in passato dell’in­telligente marketing politico sull’esistenza di un po­polo dell’Iva – soprattutto da parte del centrodestra – ma si fatica ancora ad incrociare con una parven­za di scientificità i dati che li riguardano. Eppure tra Camere di Commercio, Inps, Istat e ministro delle Fi­nanze i numeri abbondano – sostiene l’ex ministro Rino Formica – ma non c’è coordinamento e forse a ritardare i lavori delle istituzioni e dell’accademia c’è una piccola conventio ad excludendum. la tesi di Giuseppe Bortolussi (Cgia Mestre) secondo la quale in Italia le analisi si fanno solo per le imprese che hanno da 20 addetti in su, perché «persiste un atteg­giamento snobistico da parte della cultura economi­ca ». Così capita che indagini diffuse pressoché nello stesso periodo sui medesimi fenomeni od analoghi dicano cose differenti come è accaduto di recente. Movimprese (Unioncamere) sostiene che con la Crisi le cessazioni prevalgono, al ministero risulta, sulla base del dato delle partita Iva già citato, esattamente il contrario.

I «magnifici» anni 80

Il fenomeno del popolo dell’Iva inizia negli anni 80 quando comincia quella che Giuseppe Vitaletti, l’eco­nomista che per lungo tempo lo ha studiato in virtù della stretta collaborazione con Tremonti, chiama «la ristrutturazione terzistica» dell’economia italia­na. Lo strumento tecnico per diventare imprenditori di se stessi si rivela agile e snello e comunque nel Paese c’è voglia di provare a diventare capitalisti per­sonali, a sfidare il classismo e a trovare un lavoro di­verso dall’impiego pubblico o dall’indossare la tuta blu con il logo della grande azienda. Non è un feno­meno all’americana ma tutto sommato un po’ gli so­miglia, è un liberismo implicito che seppur mai teo­rizzato finisce per guidare l’azione di tanta, tantissi­ma gente. Vitaletti ha avuto modo in passato di defi­nire i nuovi microimprenditori gente che «vive sulla voce, governa il lavoro parlando e non emanando re­golamenti scritti» proprio per sottolineare anche nei modelli di impresa la discontinuità, la provenienza dal mondo reale e non dai manuali di management.

Il fenomeno incontrò qualche simpatia negli am­bienti socialisti di allora – le destre erano stataliste e il garofano era grande amico della consulenza – e non è un caso che ancora oggi chi sostiene la lunga marcia del popolo delle partite Iva venga da lì o comunque con­servi il Dna di quel patrimonio culturale, un piccolo fil rouge che ha resistito nel tempo pas­sando attraverso la Prima Re­pubblica, i giudici, i governi tecnici e la nascita del bipolari­smo. Le poche indagini che ri­guardano le partite Iva si spin­gono a sostenere che in media lavorano 7 ore alla settimana in più dei lavoratori dipenden­ti ma sono più soddisfatti per­ché «hanno trovato il modo di farsi valere». Interrogati qual­che tempo fa dall’Ires-Cgil sul­l’eventualità di scambiare la loro attività in proprio con un’assunzione, il 43% sorprese i ricercatori ri­spondendo di non averne nessuna voglia. E così so­no rimasti a vivere sul filo del rasoio, sono «lavorato­ri autonomi di ceto medio» – come li ha classificati il sociologo Costanzo Ranci – che spesso vanno a carte quarantotto non per imperizia personale ma perché semplicemente un loro committente a monte o un fornitore a valle fallisce.

Senza rappresentanza né lobby

In tutti questi anni nonostante che il popolo del­­l’Iva non sia mai dimagrito non ha però trovato mo­do di organizzarsi. Nemmeno con una newsletter che contasse davvero. Con i sindacati si guardano in cagnesco da sempre e si considerano avversari divisi da un muro, ma «non hanno svolto appariscenti ope­razioni di lobby» (Ranci) e non hanno veri e propri portavoce. In campagna elettorale qualche candidato soprattutto al Nord trova il modo di citarli nei propri comizi ma non c’è nemmeno un piccolo intergruppo parlamentare che almeno a parole si sia proposto di volerli rappresentare. La loro unica controparte è ri­masto lo Stato o meglio il fisco.

Naturalmente dentro il gran calderone delle parti­te Iva c’è di tutto. Non esiste un indice di rotazione che ci possa aiutare a capire quanto frequentate sia­no le loro porte girevoli, di sicuro però aperture e chiusure sono molto ravvicinate e in qualche caso spuntano affari poco leciti come le cosiddette frodi Carosello che servivano a gonfiare l’export e a rende­re difficile l’azione di repressione. Negli anni tra il ”98 e il 2003 fu notato come di partite Iva se ne apris­sero più al Sud che al Nord, addirittura 5 mila l’anno in Calabria e Campania e che alla fin fine si trattava di pizzerie al taglio, parrucchieri ed estetisti. Un ter­ziario a bassa intensità. Molto spesso, come annota Stefano Fassina, economista e consigliere di Vincen­zo Visco al ministero delle Finanze, «una partita Iva che abbia un solo committente è un controsenso, non vive liberamente sul mercato, è legato a doppio filo a un’unica azienda».
Un flash: la Rai è tra i principali datori di lavoro delle partite Iva. Ogni anno regola pagamenti a 380 mila di esse, si va dall’impresa terzista che fornisce telecamere o arredi alla tv di Stato fino ai coreografi e persino alle comparse che se vogliono apparire in una fiction devono tenere il loro registro. Negli ulti­mi anni, poi, si è sviluppata in quantità che non è facile fotografare anche un’altra tendenza: utilizzare la partita Iva come strumento per flessibilizzare il mercato del lavoro. Invece di assumere un dipenden­te – che lavora persino full time – gli si suggerisce di aprire la sua bella partita Iva. E in qualche caso gli si fornisce anche la consulenza amministrativa per riempire registri e moduli.

Il settore maggiormente indiziato per quest’uso «improprio» è quello delle costruzioni e la vicenda è seguita con una certa trepidazione dai sindacati di ca­tegoria. Non è convinto che si tratti di un fenomeno di massa Renzo Bellicini, direttore dell’ufficio studi del Cresme che lo fa rientrare nella più ampia riorga­nizzazione produttiva del mattone italiano, «dopo Tangentopoli questo settore si è completamente bal­canizzato e la dimensione media delle imprese è di 2,4 addetti. Non c’erano più i grandi lavori e allora ci si è buttati a costruire il bagno della signora Maria». Però i sindacalisti, specie del Nord e del Nord Est, come Luigi Copiello segretario della Cisl Veneto, se­gnalano come questa frantumazione stia facendo se­gnare un’ulteriore accelerazione e stia sminuzzando anche i rapporti di lavoro. «Ma le pare che esistano i muratori a part time?». In Veneto e Friuli può capita­re così che cittadini della ex Jugoslavia per dare l’into­naco a una casa aprano la partita Iva per assecondare una specie di outsourcing amministrativo delle im­prese che per questa via risparmiano all’incirca dodi­ci- tredici punti di contribuzione.

Due milioni sono inattive

Ma proviamo a vedere meglio dentro l’universo di quelle 8,8 milioni di partite Iva. La cautela statistica è d’obbligo e tutte le fonti istituzionali preferiscono parlare di stime per la giusta preoccupazione di non sbagliare. E allora quante sono veramente le partite Iva attive? Se prendiamo gli ultimi dati ufficiali, quel­li pubblicati poche settimane fa e che si riferiscono alle dichiarazioni fiscali presentate nel 2007 a versare l’Iva – e ad essere quindi in piena attività – sono 5,4 milioni tra microimprenditori e professionisti. A questi si possono aggiungere almeno un milione tra medici, tassisti, agricoltori e imprese di pompe fune­bri che sono esentati dal presentare la dichiarazione ma hanno la loro brava partita Iva e si arriva così a un totale vicino a 6,4-6,5 milioni. Non ci sono statisti­che internazionali comparabili ma chiunque abbia minimamente studiato il fenomeno sostiene che tan­ta disponibilità di gente a correre il rischio d’impresa è un ben di Dio che nessun Paese altro ha.

Naturalmente questi 6,5 milioni di partite Iva in attività vanno divise a loro volta tra ditte individuali, società di persone e società di capitale (70% le prime e 15% ciascuno le altre) ma il risultato vero resta il medesimo: l’Italia gode di una riserva di imprendito­rialità straordinaria. Che però rischia se lasciata a se stessa, come dice Vitaletti, di «operare un rigetto strutturale della politica». Una separazione testimo­niata anche dalle carenze di lessico. Li si identifica come «Partite Iva» come se si chiamassero i giornali­sti «Gli articolo uno» perché la loro condizione di di­pendenti è regolata dal primo articolo del Ccnl o an­cora se si identificassero tutti i lavoratori dipendenti con l’appellativo «I modello centouno», prendendo il termine dal modulo che ricevono dalle aziende ma­dri quando occorre presentare al fisco la dichiarazio­ne dei redditi. L’immaginazione sociopolitica, pur co­sì fertile in Italia, si è come fermata a termini come «capitalisti personali» o «postfordisti» – neologi­smo amato dalla sinistra che anche in questo caso conferma di avere nel mito Ford l’alfa e omega del suo linguaggio economico – non hanno mai trova­to grande successo e popolarità. Una storia speculare a quella del terziario italiano che dovrebbe avere al­meno 40 anni e invece è rimasto un eterno adolescen­te. «Puoi avere la Mercedes e la villetta ma se soffri della mancanza di considerazione resti comunque un outsider» commenta Bortolussi, che racconta an­che come molti avvocati e commercialisti chiedano, declassandosi, un posto da impiegato ma vogliano a tutti i costi restare iscritti all’albo professionale. Per­ché ai loro occhi comunque fa status e anche per non abdicare definitivamente all’eventualità di mettersi in proprio.

 chiaro che 8,8 milioni di partite Iva, tolti anche i due milioni di inattive o che comunque sfuggono ai rilievi del fisco, finiscono per farsi tra loro una con­correnza bestiale. Si parla tanto di liberaliz­zazioni ma è questo il settore in cui in Italia la concorrenza è più spietata. Quasi il pro­totipo della società del rischio. Ma nono­stante non esistano barriere all’ingresso come sottolineano tut­ti gli osservatori – da Vitaletti a Fassina – e la battaglia per soprav­vivere sia pane quoti­diano, il popolo del­­l’Iva non ha mai susci­tato le simpatie dei mercatisti più intran­sigenti che l’hanno considerato da sempre il retrobot­tega dell’economia, una materia di cui non è serio e nobile occuparsi. Certo se si guarda alla distribuzio­ne sul territorio – come invita a fare Formica pri­ma di pronunciare giudizi ultimativi – le in­congruenze saltano fuori.

In testa c’è la Lombardia, che da so­la ospita quasi il 20% del popolo dell’Iva, il Veneto ne ha un nume­ro inferiore sia alla Campania, sia al Lazio. Secondo l’ex mini­stro un vero check up del feno­meno Iva dovrebbe essere condot­to localmente incrociando i dati del­le aperture, il gettito e la produzione del territorio. Per questa via si arriverebbe a circoscrivere le aree grigie e a ripristinare «lo spirito originario, quello di favorire la vitalità im­prenditoriale ». Ma proprio per questo, aggiunge For­mica, è ormai necessario riformare il modello favo­rendo gli accorpamenti e rinunciando alla cifra mon­stre degli 8,8 milioni.

Nell’attesa di un futuro migliore il centrodestra al potere è convinto che, grazie all’introduzione del forfettone per i redditi sotto i 30 mila euro e alla possibilità di splittare il reddito tra moglie e mari­to, molto – se non moltissimo – si sia fatto in termini di fisco leggero e di conseguenza qualsiasi orientamento antigovernativo sarebbe quantome­no ingiustificato. Non la pensano così alla Cgia di Mestre e mantengono un atteggiamento di fiera op­posizione alla riformulazione in atto per gli studi di settore, lo strumento fiscale che serve a misurare su base statistica entrate e fatturato delle partite Iva. «C’è il rischio concreto di una moria simile a quella che ci fu con la minimum tax» dicono. E i micro-imprenditori del Nord Est che si lamentano di pagare in proporzione più di quelli del Sud pro­mettono battaglia: «Gli studi di settore sono uno strumento troppo rigido e l’onere della prova deve essere a carico dello Stato».