Cesare Cavalleri, Avvenire, 6/5/2009, 6 maggio 2009
ANITA DESAI, RACCONTI SOSPESI TRA INDIA E OCCOIDENTE
Molto bene ha fatto Einaudi a riunire in unico volume Tutti i racconti ( pagine 380, euro 15,50) di Anita Desai, con l’aggiunta di un inedito del 2007, Il pianerottolo, che riproduce il respiro dei precedenti abitanti di una casa, con straniamento della nuova proprietaria.
Non so perché non abbiano ancora dato il Nobel a questa scrittrice cosmopolita, nata in India nel 1937 da padre bengalese e madre tedesca, e che si divide tra gli Stati Uniti, l’India e il Messico. Almeno spero che qualcuno ci stia pensando, anche se, da come il Nobel si è spampanato, non c’è molto da illudersi. La forza e il merito di Desai sta nel ritrarre da dentro la diversità culturale di Oriente e Occidente senza precipitare conclusioni e senza enfatizzare conflitti, ma riproducendone – con straordinaria finezza psicologica e suprema eleganza – la complessità, talvolta dal punto di vista occidentale, talaltra dell’orientale. Dei ventun racconti, tutti bellissimi, alcuni eccellono. Per esempio, Sua Altezza, dove un guru imbevuto di dottrine iniziatiche, ma sensibile al confort occidentale ( a me ricorda Ramon Panikkar, che ho conosciuto di persona) sconvolge i piani di una coppia di amici in procinto di lasciare il caldo soffocante di Delhi per raggiungere il fresco delle vacanze. Oppure, struggente, struggentissimo, Paesaggio invernale, in cui Rakesh, giovane indiano che ha sposato una canadese e si è stabilizzato a Toronto, viene raggiunto dalle sue ’ due madri’ ansiose di conoscere il nipotino. In realtà si tratta di sua madre e della sorella di sua madre, cioè di una zia che l’ha allevato come un figlio, e che lui ama di identico amore, con sconcerto della moglie che non riesce a entrare in quell’ordine di idee. E le due timide, dolcissime e poverissime indiane alle prese con l’inverno canadese, con la neve che vedono per la prima volta... insomma, leggere per credere. Il più emblematico, forse, è Il ricercatore e la giramondo, che descrive le peripezie di una giovane coppia americana che giunge a Delhi perché lui, David, deve completare una ricerca sociologica. Pat, la moglie, non riesce proprio ad abituarsi al clima asfissiante della città, e rifiorisce solo quando il marito propone una vacanza nelle montagne di Manali, fra i boschi finalmente freschi. E lì, mentre David cerca di portare avanti il suo lavoro ( siamo alla fine degli anni – 70, e il giovane scrive a macchina: il computer era ancora lontano), Pat si infervora per una comunità di hippy a cui finisce per aggregarsi, confondendo la serenità buddista con i riti indù. L’avventura finisce con una tremenda litigata, David ritorna a Delhi e Pat resta ( temporaneamente, si spera) con gli hippy a sigillo di un doppio errore: da parte di David la chiusura nella propria mentalità occidentale; da parte di Pat l’infatuazione dilettantesca per l’orientalismo. Peccato che proprio in questo racconto, a p. 286, alla brava curatrice Anna Nadotti ( anche traduttrice con Bianca Piazzese e Vincenzo Vergiani) sia sfuggito un condizionale al posto di un congiuntivo: « Difficile dire cosa sarebbe accaduto, se le sovrastanti rocce d’ardesia si sarebbero abbattute sulle loro teste » . Inconsueta la capacità di Anita Desai di cogliere le paure, gli slanci, i segreti desideri, le delusioni dei bambini, protagonisti di parecchi suoi racconti: davvero un’esplorazione dell’animo umano allo stato nascente. Ha scritto Salman Rushdie: « Quando penso ad Anita Desai, ne vedo distintamente la figura che si staglia, alla pari, accanto a Jane Austin, quell’altra grande scrittrice indiana » . Un orologio fermo segna l’ora esatta due volte al giorno. Anche Rushdie, in vita sua, ha finora detto due cose esatte: una è questo giudizio su Anita Desai; l’altra non l’ho ancora trovata.