Alfonso Berardinelli, Vita e pensiero Anno 2009 numero 2, 6 maggio 2009
VALUTARE LIBRI
Lettera a un giovane critico su un’attività naturale e incompresa.
I.
Caro amico, se hai intenzione di fare il critico letterario, non ho da consigliarti altro che di seguire il tuo istinto. Si diventa critici, infatti, anche senza volerlo, solo perché l’esercizio intensivo della comprensione e del giudizio ci sembra naturale. In effetti credo che lo sia. Per me lo è certamente: ma io sono un critico-critico, perché evidentemente, fin da ragazzo, erano più le cose che non mi piacevano che quelle che mi attiravano. Non credo che si diventi critici in quanto lettori di romanzi e poesie. Lo si diventa soprattutto perché l’ambiente, la famiglia, la scuola, il quartiere, i coetanei, gli adulti, i concittadini, i connazionali ci mettono a disagio. Allora bisogna spiegare i perché di questo disagio innanzitutto a se stessi. L’adolescenza viene definita non a caso ”età critica”. Il critico non è un severo uomo maturo, anche se può ovviamente diventarlo. Il critico è all’origine un adolescente scontento, che si chiede perché gli altri sono come sono, perché si hanno tanti dubbi su se stessi e qual è il ”modo giusto” o migliore di vivere. Si comincia così a leggere romanzi e poesie e a confrontare vita vissuta e vita immaginata. Si comincia mettendosi nei panni dei personaggi raccontati. Si provano emozioni che ci vengono trasmesse da certi misteriosi e potenti congegni verbali. Per me all’inizio ci furono i racconti di Cechov e L’infinito di Leopardi: cioè ambienti sociali chiusi e un desiderio senza precisi limiti, fisico e metafisico, di entrare in un altrove che eccede i confini consueti della mente.
Non voglio annoiarti parlando di me. Ma certo un critico senza moventi autobiografici non si sa che cosa sia: non capisce lui stesso perché legge, quali autori leggere, come funziona il suo personale campo magnetico, cioè, diciamolo pure, la sua mente ermeneutica. In certe polemiche nelle quali mi sono trovato ripetutamente coinvolto, ho scoperto che il problema più sentito è proprio questo: alcuni hanno la fobia della fredda e arida obiettività scientifica, altri sono terrorizzati dal sospetto di essere degli individui concreti con un ”io” e una storia personale. Inutile dire che la soluzione si trova a metà strada e che la verità è nel mezzo, nella misura. E’ inutile dirlo non perché non sia vero, ma perché verità astratte come questa aiutano poco. Un critico deve per prima cosa capire come funziona un testo scritto, come funziona la testa di un autore, quale insieme sociale e quale insieme di idee e di valori, quali aspirazioni e quali conflitti hanno prodotto l’individuo che scrive. Ci vuole attenzione al linguaggio e ci vuole immaginazione e curiosità per gli esseri umani. Non capirò mai un testo in se stesso, se non riesco a vedere mentalmente che individuo c’è dietro. Le due cose sono inseparabili. Un critico è un po’ filologico (ama il linguaggio), un po’ è un visionario (immagina una realtà oltre la lingua), un po’ è un diagnostico (interpreta sintomi e segni di una fisiologia e patologia psico-sociale). Ma credo che la critica come attività ”naturale” abbia inizio con la conversazione e la rimuginazione sui libri letti. Ci sono tanti lettori appassionati e intelligenti di libri che però (misteriosamente, per me) non parlano mai dei libri letti. Passano da un libro all’altro, vanno sempre oltre e non rileggono mentalmente le cose che hanno letto. Non mettono in relazione un libro con l’altro. Non ruminano, non meditano. Non sono mentalmente abitati dalle immagini e dalle idee che i libri hanno fatto entrare nei loro cervelli. Ho conosciuto un caso limite di questa tipologia del lettore-divoratore: era una donna che in ogni ritaglio di tempo, in treno, sulla spiaggia, all’ufficio postale, aveva sempre aperto davanti agli occhi uno di quei tascabili di cinquecento pagine che tutti comprano, e che cosa faceva? Strappava e buttava via ogni pagina dopo averla letta. La lettura era conclusa quando la carta era materialmente finita. Questo tipo di lettore naturalmente non ha in casa una propria biblioteca, non riempie le stanze di libri, non possiede neppure i libri che ha letto. Un critico è invece chi compra libri con l’idea che li leggerà che vuole assolutamente leggerli, che deve leggerli: e intanto li contempla, li desidera, costruisce con la loro presenza fisica il proprio futuro di lettore, prova rimorso perché la propria vita gli impedisce di leggere o di rileggere tutto quello che vorrebbe. Il critico pensa ai libri e alle sue letture anche quando non legge. Nella sua testa si snoda un monologo ininterrotto nel quale gli autori tornano, si presentano a suggerire qualcosa, cambiano posto, acquistano o perdono valore secondo i giorni, le vicende, le stagioni, le ore. L’attività critica si alimenta da tutto questo: da un continuo rileggere mentalmente e fisicamente. Soprattutto si alimenta dalla conversazione. Gli studenti di letteratura che diventeranno dei critici sono coloro che continuano a parlare con gli amici dei libri letti anche quando hanno superato l’esame. Senza una certa dose di bibliofilia non si diventa critici. Direi anzi che il critico letterario è un individuo che riflette in presenza di uno scaffale di libri: che ha bisogno di sfogliare e consultare libri per connettere e dare ossigeno ai propri più comuni pensieri.
Mi scuso con te per queste considerazioni da sillabario. Mi sono state suggerite dal fatto che un critico è a metà strada fra il lettore comune e lo studioso accademico: legge per ragioni personali, ma trasforma ossessivamente e metodicamente queste ragioni in uno strumento di conoscenza utile a tutti. Questo metodo del rimuginare ossessivo, del conversare, del tornare continuamente nel corso del tempo sugli stessi autori, lo si vede bene, per esempio, in Giacomo Debenedetti e Cesare Garboli. Erano entrambi dei diagnostici e dei visionari. La loro immaginazione interpretativa e la loro attitudine a trovare nessi nascosti era fuori misura, aveva qualcosa di smodato. Avevano bisogno di contenerla, di moderarla: non finivano mai di scoprire cose buone negli stessi autori, non facevano che rileggerli. Debenedetti usava Proust, Saba, Pirandello, Svevo, De Sanctis, Freud e Jung: studiava le trasformazioni dell’umanità novecentesca nelle metamorfosi patologiche dei personaggi romanzeschi e dei linguaggi poetici. Garboli indagava e frequentava Antonio Delfini, Mario Soldati, Sandro Penna, Natalia Ginzburg, Roberto Longhi, Elsa Morante, Pascoli e Molière: diagnosticava la malattia che si chiama Letteratura e la malattia che si chiama Italia, dalle origini del fascismo alle – maschere” pubbliche di fine Novecento. Sono due tipici critici-scrittori e critici-lettori, che gli studiosi e i teorici della letteratura fanno fatica ad accettare. E’ proprio la natura composita, ibrida, camaleontica, mercuriale del critico ciò che inquieta di più, suscitando nei suoi confronti forti ambivalenze, tra rispetto e denigrazione. E sono soprattutto gli scrittori a essere vittime della massima oscillazione: prima dichiarano che i critici sono necessari, se poi non vengono soddisfatti e assecondati, proclamano che i critici sono superflui e, per favore, si tolgano di mezzo.
Se questo avviene, qualche ragione c’è. Il critico può essere un devoto ammiratore e può essere giudice severo. Offre spiegazioni utili, cataloga, promuove, mette ordine, consacra. Ma può anche ignorare, condannare, denigrare, sottovalutare, negare comprensione. Il fatto è che la critica è una funzione culturale, è un ruolo pubblico, un’istituzione, una categoria di intellettuali, una modalità comunicativa ed espressiva, un genere letterario. Non meno vero, tuttavia, è che (come ha spiegato Giuseppe Leonelli) ”la critica sono i critici”: e i critici non sono tutti uguali. Sono anzi spesso così diversi che alcuni di loro negano di essere critici letterari, altri negano viceversa che molti dei loro colleghi lo siano davvero. Volendo essere drastici si potrebbe applicare una celebre e crudele battuta di Karl Kraus e dire che i critici, come gli altri scrittori, si dividono in due categorie: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. E qui siamo al diapason della vocazione giudicante, senza la quale gli stessi procedimenti cognitivi e ricognitivi della critica perdono significato e vigore. Una distinzione empirica, formalmente più modesta, potrebbe essere quella che declina tre diverse figure: il recensore, lo studioso, il critico, dove quest’ultimo può comprendere e comunque eccede l’ambito dei primi due. Nel senso che certamente ogni essere umano e pensante è dotato di capacità critiche (la critica è ”naturale”, è di tutti), ma non tutti gli innumerevoli recensori di libri sono veri critici. Così come ogni critico, se è qualcosa di più di un lettore, deve essere anche uno studioso, ma non tutti gli studiosi sono critici. Ecco: tornando all’inizio del discorso, il ”vero” critico è un lettore, uno studioso, un filosofo, uno scrittore. E’ un critico della vita attraverso la letteratura e un critico della letteratura attraverso la vita. Con giusta prudenza pratica, Giuseppe Leonelli ha scritto: ”Penso che abbiano diritto a esistere non una sola ma molte idee della critica, tutte parziali, tutte buone, come i metodi, diceva Croce, che sono buoni, tutti, quando sono buoni. Idee che tendono a incarnarsi in organismi viventi, un po’ come accade ai virus, che non possono svilupparsi e neppure sussistere autonomamente, al di fuori della cellula che li ospita. C’è una critica che s’impersona in Sainte-Beuve e De Sanctis, un’altra in Croce, Serra, Thibaudet, un’altra in Debenedetti, Cecchi, Solmi e via dicendo. I libri, come lo spirito hegeliano, escono dalla loro essenza ideale e s’inverano in un’esistenza storica mediata e garantita da quei particolari interpreti che sono i critici. I quali non si distinguono funzionalmente da quello che chiamiamo lettore comune, se non per la qualità, ricchezza, risonanza e capacità di formalizzazione e comunicazione della propria esperienza. In questo senso, la critica è sempre un genere letterario; o meglio, partecipa di tutti i generi, proprio come la letteratura” (La vocazione di Jago, Gaffi editore, Roma 2007, pp. 135-136).
II.
La critica, come del resto la stessa scienza, e anche la filosofia, è una attività pratica, molto naturale (si discute in pubblico dei libri letti) ma anche piuttosto incompresa (altrimenti non si spiegherebbero le molte polemiche sulla sua funzione, legittimità, metodologia). Come si fa a capire e giudicare la qualità dei libri? Massimo Onori ha pubblicato qualche mese fa Recensire. Istruzioni per l’uso (Donzelli editore), nel quale questa attività viene esaminata da tutti i punti di vista. Io qui mi limito ad alcune semplici precisazioni:
1. L’attività critica non va confusa né con l’estetica filosofica, la teoria della letteratura o le poetiche militanti. La critica non ha niente di normativo e usa le definizioni generali solo per arrivare alla descrizione del caso singolo, autore o libro.
2. Non credo che un critico militante debba definirsi per le sue scelte di tendenza o perché crede in una poetica specifica ad esclusione di altre: questa è una possibilità, ma non è sola, e secondo me non è la migliore. Il critico non deve approvare libri brutti che illustrano, applicano, sostengono la sua poetica preferita: meglio che invece sappia riconoscere il valore di opere riuscite che si ispirano a una poetica che disapprova.
3. Se la critica sono i critici, questo comporta che ognuno avrà i suoi criteri, metodi di analisi, punti di vista, preferenze di gusto e modi di argomentare. In altri termini: la critica è un’attività rischiosa, è un’esperienza senza esiti garantiti. Il rischio di errore e di fallimento non è neutralizzato né dall’adozione di un ”corretto” metodo di analisi, né dalla scelta di una poetica ”più avanzata” di altre. Il rischio reale garantisce alla critica un’autenticità conoscitiva e valutativa. I criteri di giudizio possono variare nel tempo e secondo le circostanze. Il critico troppo coerente può essere miope o fazioso. Il critico troppo duttile può essere sconcertante: lascia libero il lettore, ma non gli dà le sicurezze che il lettore, spesso, vuole.
4. Tutti i critici fanno errori di valutazione. A volte però un errore può essere più interessante di un giudizio equo, equilibrato e inerte. Succede con Lukacs e Edmund Wilson, che non capiscono o rifiutano Kafka. Con Eliot, che rifiuta Hamlet e i poeti romantici. Con De Sanctis, che critica Guicciardini e il barocco. Con Debenedetti, che sceglie Saba contro l’ermetismo. Con Fortini, che stronca Il gattopardo e non sopporta Renato Serra. Eccetera.
5. Ogni critico prende le misure degli autori e dei libri. Quali sono le unità di misura? Ne elenco alcune:
a) Ci si riferisce a un canone di classici che definiscono il genere letterario: romanzo, lirica, saggistica, teatro.
b) Si valuta il presente a partire da quanto di meglio è stato scritto dalle due o tre generazioni immediatamente precedenti.
c) Si valutano le rappresentazioni letterarie del mondo a partire dall’esperienza diretta che il critico e il lettore hanno della realtà: vita urbana, ambienti di lavoro, criminalità, amore, amicizia, rapporti fra generazioni, ecc. Una letteratura che voglia essere credibilmente realistica deve essere, appunto, credibile.
d) La percezione della qualità linguistica e stilistica. Per questo, ovviamente, ci vuole orecchio, bisogna che il critico abbia letto bene autori molto vari. La ”falsità” linguistica è uno dei difetti più frequenti nella narrativa e nella poesia recenti. In questo caso, più che la rappresentazione della realtà, deve essere la lingua (del poeta, dei personaggi) ad essere credibile.
6. Il libro va misurato con qualche cosa di esterno (realtà, passato letterario, altri libri contemporanei) ma anche con se stesso, con le sue promesse e premesse, con le sue intenzioni e ambizioni.
7. Fondamentale è comunque, soprattutto, descrivere-definire da vicino cosa è quel particolare libro, individuarlo. Non vanno applicate categorie prefabbricate, come ha fatto di solito la critica ideologica, o moralistica, o d’avanguardia.
8. Per esempio: può accadere che il critico debba riconoscere che i migliori poeti o romanzieri o saggisti contemporanei non sono affatto quelli che scrivono come lui preferisce, o come si augurava. Il critico deve saper accettare di essere sorpreso e contraddetto dai fatti. Deve saper amare qualcosa che non si aspettava di poter apprezzare.
9. Bisogna essere capaci di ammirazione. Il critico ha bisogno di autori preferiti, che ammira, che lo ispirano, che eccitano la sua intelligenza. Ha però anche bisogno di autori che esaltano la sua ostilità e aggressività. A volte può essere un po’ inutile e anche noioso parlare di autori e libri che ci piacciono: ci basta leggerli, e non sappiamo che dire, che cosa aggiungere a quello che hanno scritto. Personalmente sono molto stimolato dal tentativo di far capire perché è brutto un libro che tutti trovano bello, o che è bello un libro trascurato. Per un critico è importante essere iconoclasta. Demolire i falsi idoli libera la mente e la prepara ad apprezzare il meglio.