Arturo Zampaglione, Afari e finanza 4/5/2009, 4 maggio 2009
USA, COSI’ E’ RINATO IL SINDACATO
All´alba di venerdì 1° maggio, mentre i quotidiani davano le notizie-bomba sulla Chrysler, migliaia di operai si presentavano ai cancelli della fabbrica di Warren, grigia cittadina alle porte di Detroit, dove la terza casa auto americana sforna i suoi camioncini. Erano tutti lì con diligenza e un filo di inquietudine, per l´inizio del turno. Negli Usa la festa del lavoro si celebra a settembre: un´anomalia che segna una profonda differenza anche culturale rispetto al resto del mondo.
Da tempo i rapporti industriali e le relazioni sindacali nella più grande potenza industriale rispondono a dinamiche diverse, peculiari, che hanno poco in comune con le esperienze di altri paesi europei e non sembrano per ora contagiate dalla globalizzazione. Ma per effetto della tempesta economica e del ciclone politico di Barack Obama queste dinamiche stanno subendo una accelerazione profonda, con sbocchi ancora imprevedibili.
Il sindacato rialza la testa. Inverte una tendenza al declino degli iscritti che sembrava inevitabile e veniva persino teorizzata come una componente essenziale della transizione verso assetti post-industriali. E si assume nuovi ruoli e responsabilità: a cominciare dall´ingresso nel capitale azionario di grandi aziende salvate con l´intervento dello Stato, secondo un modello nuovo, rischioso, che non deriva dall´esempio "renano", cioè della Germania post-bellica, ma si avvia ad esplorare nuove frontiere.
Il precursore di questa linea è proprio Ron Gettelfinger, che da Detroit guida i 460mila iscritti al Uaw (United auto workers), il sindacato dell´auto, e che, dopo aver ha avuto una funzione chiave nei negoziati sui destini della Chrysler, si avvia ora alle trattative sulla General Motors. Gettelfinger, che sfoggia dei vistosi baffi, è stato tra i primi a pronunciarsi in favore dell´alleanza con la Fiat. E´ stato tra i primi a rendersi conto che, per salvare i posti di lavoro a Warren e nella altre fabbriche della Chrysler, si dovevano fare concessioni salariali importanti, non fosse altro per riequilibrare il costo del lavoro con quello delle case concorrenti asiatiche (finora ogni ora ogni iscritto alla Uaw delle tre big di Detroit costava 74 dollari l´ora rispetto ai 44 dollari alla Toyota). Ed è stato sempre il capo della Uaw a non tirarsi indietro di fronte all´ipotesi - pericolosa per tutti, piena di incognite, ma al tempo stesso forse promettente per Detroit - di trasformare in pacchetti azionari delle case automobilistiche i crediti miliardari vantati dal sindacato per i fondi sanitari e previdenziali.
Le novità per il sindacato americano non riguardano solo il settore dell´auto, che in realtà sta combattendo una guerra per la sopravvivenza. Nel corso del 2008, mentre Obama sconfiggeva Hillary Clinton nelle primarie e poi John McCain nelle presidenziali di novembre, sancendo la fine della Reaganomics, delle crescenti disparità sociali e del miti della deregulation, negli Stati Uniti si è registrato il più forte aumento del numero totale di iscritti alle organizzazioni sindacali in un quarto di secolo: in tutto 428mila lavoratori americani si sono tesserati per la prima volta o si sono decisi a rinnovare l´iscrizione.
La percentuale di lavoratori sindacalizzati è ancora molto più bassa che in altri paesi europei ed è meno della metà di quello che era alla metà degli anni 50, durante il periodo d´oro dell´industria manifatturiera e del generale Dwight Eisenhower alla Casa Bianca. Secondo le statistiche fornite dal ministero del Lavoro di Washington, gli iscritti sono passati dal 12,1% della forza lavoro nel 2007, al 12,4% dell´anno scorso (in totale 16,1 milioni): mezzo secolo fa ne rappresentavano il 26%. Ma al di là di questi paragoni, l´aumento conferma i primi, timidi segnali registrati l´anno scorso (che allora furono snobbati come un errore statistico) e segna, secondo Steve Hipple, un economista del ministero, "un chiaro cambiamento di rotta".
A che cosa attribuire il nuovo trend? I sociologi e gli economisti, a cominciare dal premio Nobel Paul Krugman, professore a Princeton e columnist del New York Times, indicano un insieme di fattori concomitanti. Innanzitutto c´è un potenziamento del sindacato sia nel pubblico impiego, i cui membri sono aumentati l´anno scorso di 275mila unità, che in fasce di colletti bianchi colpiti da chiari processi di proletarizzazione, a cominciare dal settore bancario. La grande recessione iniziata nel dicembre 2007 è servita a diffondere una maggiore coscienza sull´utilità della associazioni sindacali (anche se possono fare ben poco per evitare i licenziamenti). E´ emersa anche una leva di dirigenti più moderna e combattiva: il migliore esempio è quello di Andy Stern, 58 anni, capo della Service Employment International Union, il secondo sindacato americano per ordine di grandezza dopo quello degli insegnanti.
Stern, che viene considerato un candidato per la successione di John Sweeney alla testa della grande confederazione Afl-Cio, è sempre stato un fautore di una strategia aggressiva per superare gli ostacoli imposti dalle leggi (e dal comportamento dei datori di lavoro, anche di quelli di multinazionali come WalMart) alla creazione di sindacati aziendali. E´ una battaglia che ormai trova compatto anche il partito democratico. L´obiettivo: rendere più facile il tesseramento attraverso l´approvazione di una legge chiamata Employee Free Choice Act.
Osteggiata dalla destra, che negli anni di Bush si è sempre schierata con successo dalla parte delle imprese, la legge richiederebbe, per la creazione del sindacato interno, una semplice firma della maggioranza dei lavoratori in calce a un documento, invece che una decisione collettiva a scrutinio segreto. L´approvazione del provvedimento, sia pure in una versione più soft di quanto voluto da Stern, appare molto probabile dopo che la settimana scorsa i repubblicani, per la defezione di uno dei loro, Arlen Specter, hanno perso la forza numerica per ricorrere all´ostruzionismo parlamentare.
Proprio questo episodio chiarisce come il sindacato americano stia beneficiando del clima politico che ha portato Obama alla Casa Bianca, alla cui elezione ha peraltro dato un contributo importante. La confederazione Afl-Cio, le cui radici risalgono al 1886 e che ora riunisce 56 sindacati di settore, è stata per decenni un serbatoio di voti e di finanziamenti per il partito democratico. Tale ruolo sembrava attenuarsi con il declino del numero degli iscritti e la perdita di potere. Ma la fine ingloriosa della presidenza Bush ha coinciso con una rinascita del suo peso nella vita politica americana.
All´inizio della stagione delle primarie, grazie ai rapporti stabiliti dal marito Bill negli otto anni di Casa Bianca, Hillary Clinton aveva i maggiori appoggi nel mondo sindacale. Ma nel gennaio del 2008, con la scesa in campo del sindacato dei casinò di Las Vegas a favore del candidato afro-americano, Obama è riuscito ad aggiudicarsi più delegati nel Nevada e da lì ha risalito la china. Alla fine i finanziamenti ricevuti dal sindacato e la mobilitazione dei suoi iscritti hanno pesato molto sul trionfo democratico nel novembre scorso.
Dopo il suo insediamento a Washington il neopresidente ha fatto capire di volere un rafforzamento del mondo del lavoro considerandolo la chiave di volta di una ripresa economica su basi più solide e di un rinnovamento della società. "Il sindacato non contribuisce ai problemi del paese ma alla loro soluzione", dichiarò Obama, sancendo la svolta alla Casa Bianca e affidando al vicepresidente Joe Biden la task force sulla middle class allo scopo di migliorare le condizioni dei ceti lavorativi. E la prima legge che il presidente ha firmato è stata proprio quella sulla parità salariale, che porta il nome di Lilly Ledbetter, una nonna dell´Albama che aveva lavorato per 19 anni alla Goodyear guadagnando molto meno dei suoi colleghi maschi.
In realtà nei primi cento giorni di presidenza, pur aprendo una nuova fase nelle relazioni sindacali, Obama si è mostrato più prudente ed equidistante di quanto speravano il capo della Afl-Cio Sweeney o del Uaw Gettlelfinger. Tanto che quest´ultimo, nei momenti più caldi del negoziato con Chrysler e Fiat, ha chiesto ai suoi iscritti di mandare delle mail di protesta e di pressione alla Casa Bianca. Il presidente, ad esempio, non ha scelto nessuno esponente sindacale tra i suoi collaboratori più stretti, preferendo rivolgersi a finanzieri come Steve Rattner, divenuto di fatto lo "zar" dell´auto, o a grand commis come Tim Geithner. Obama non ha neanche voluto avere un filo diretto (e informale) con i vertici del sindacato: come invece era il caso di Bill Clinton. E non ha esitato a prospettare l´ipotesi di un fallimento delle case automobilistiche, e di spazzare via così i privilegi acquisiti dal Uaw in decenni di lunghi scioperi e dure contrattazioni.
A dispetto di queste comprensibili cautele del nuovo presidente, che non vuole apparire di parte né perdere il sostegno di componenti importanti del mondo dell´economia e dell´opinione pubblica, appare chiaro che il sindacato americano stia vivendo una nuova stagione. La domanda ancora senza risposta è se questa fase apra anche la prospettiva di un rinnovamento interno e di un avvicinamento alla filosofia meno corporativa del mondo del lavoro negli altri paesi industrializzati.