Sergio Romano, Corriere della sera 4/5/2009, 4 maggio 2009
SU BETTINO RICASOLI
Nello scorso marzo è caduto il 200˚anniversario della nascita a Firenze di Bettino Ricasoli, il Barone di ferro, di cui sono pronipote. Mi piacerebbe leggere un suo commento sull’impegno determinante del mio trisnonno per l’unità d’Italia, che così tanti, in modo rodomontesco (come lei ha scritto sul Corriere), vorrebbero denigrare.
Niccolò Rosselli Del Turco
delturco@tin.it
Caro Rosselli Del Turco,
La storia della passione unitaria di Bettino Ricasoli è una delle più interessanti e contraddittorie del Risorgimento. Nelle sue molte pagine su un personaggio a cui era particolarmente affezionato, Giovanni Spadolini ricorda che nel 1848 Ricasoli fu «granducale », federalista, convinto della necessità di salvaguardare l’autonomia della Toscana nell’ambito del nuovo assetto politico dell’Italia moderna. Nulla lasciava prevedere in quel momento il rigore e la tenacia con cui, verso la metà degli anni Cinquanta, sarebbe divenuto uno dei più entusiasti sostenitori dello Stato unitario sotto la monarchia dei Savoia. «Aborro, scrisse nel 1856, i progetti eunuchi; ed eunuchi li considero tutti quelli che più o meno lasciano divisa l’Italia».
Credo che Spadolini abbia ragione quando afferma che nella conversione di Ricasoli vi fu qualcosa di religioso. Quando divenne unitario, sostenne la sua nuova linea con una fede e una inflessibilità che superarono nei momenti cruciali (l’armistizio di Villafranca ad esempio) quella di Cavour. Avrebbe fatto a meno dei plebisciti, che gli sembravano inutili, e governò quello toscano, quando accettò la decisione di Torino, con piglio autoritario. Allorché venne in discussione, dopo l’unità, il sistema amministrativo del Regno, Ricasoli, allora presidente del Consiglio, non esitò a respingere il regime delle autonomie locali previsto nella riforma proposta da Marco Minghetti. Voleva uno Stato forte, alla francese, e riteneva che l’entità regionale fosse una «ruota non solo inutile, ma dannosa ». Fu certamente spinto in quella direzione dalla guerra del brigantaggio che stava mettendo in pericolo l’unità del Paese. Ma aveva motivazioni ideali non meno importanti. Credeva che la nazione fosse opera dello Stato e che spettasse a questo formare gli istituti, le coscienze, l’etica collettiva, persino una nuova Chiesa cattolica. Secondo Spadolini fu dunque un giacobino di destra. Benché profondamente cattolico, non esitò a ordinare l’arresto o il confino dei sacerdoti che rifiutavano di cantare il Te Deum per il genetliaco di Vittorio Emanuele II. La devozione ai Savoia, tuttavia, era soltanto senso dello Stato.
Rimaneva al governo, scrisse nel 1862 a Costantino Nigra, «per bene vigilare l’andamento della cosa pubblica ed impedirne il dissesto con tutte le forze di cui dispongo, preservando così la corona dalle conseguenze delle sue follie».
Per comprendere il contributo di Ricasoli all’unità nazionale, basta chiedersi che cosa sarebbe accaduto se a Firenze, in quegli anni, avesse prevalso il sentimento dell’autonomia. La Toscana non era soltanto una delle regioni più civili della penisola. Era la sua lingua, la sua più importante tradizione letteraria, il cuore della sua identità culturale. Forse, caro Rosselli del Turco, sarebbe stato meglio lasciare che la capitale, dopo il 1870, restasse a Firenze.