Claudio Magris, Corriere della sera 4/5/2009, 4 maggio 2009
E STALIN INVENT LE RICETTE DI STATO
«L’ harco (una minestra piccante del Caucaso) va in genere preparato con petto di manzo, ma quest’ultimo può essere sostituito anche con il petto di montone (...) Dopo che è passata un’ora, un’ora e mezza dall’inizio della bollitura, bisogna aggiungere la cipolla tritata, l’aglio pestato, il riso, le prugne acide, il sale, il pepe e cucinare il tutto ancora per 30 minuti. Stufare leggermente il pomodoro nel burro...».
Queste ed altre appetitose ricette, dal Plov o Pilaf all’uzbeka ai Bliny all’ucraina, non si trovano in una raccolta qualunque, bensì in un testo «rivoluzionario» ovvero nel Libro del cibo gustoso e salutare, pubblicato la prima volta a Mosca nel 1939 e ristampato, con ricche illustrazioni, più volte negli anni a cura dell’Accademia delle scienze mediche dell’Unione Sovietica. Il libro, per esplicita volontà di Stalin, doveva attestare la «Rivoluzione in cucina» e documentare «la massima affermazione del costante progresso delle necessità materiali e culturali della società » promosso dal Partito comunista, coronando «la felice realizzazione dei piani quinquennali» col «benessere, la felicità e la gioia di vivere » procurati ai lavoratori e in particolare alle donne. Aureo libretto per noi, che potremmo permetterci di mettere nei nostri piatti il risultato di quelle succose ricette, e tragica beffa per milioni di affamati e denutriti cittadini sovietici di quegli anni, il Libro del cibo gustoso e salutare ci viene ora proposto da Ljiljana Avirovic (straordinaria traduttrice cui si devono non solo fondamentali versioni in croato di autori italiani, ma anche di autori quali Pasternak, Crnjanski o Bulgakov in italiano) e interpretato in controluce alla terribile storia sovietica di quegli anni.
A quel ricettario collaborano scienziati e intellettuali di diverse discipline; «l’ingegnere di anime» – ossia lo scrittore e l’intellettuale che secondo Stalin deve produrre il nuovo uomo della società comunista’ non trascura la tavola, in cui si rigenera non soltanto il corpo, ma anche lo spirito, il senso cordiale del vivere. «Un uomo rinasce vivendo fino in fondo la vita»: è Stalin ad affermarlo, brindando generosamente ad una suntuosa cena il 26 ottobre 1932 a casa di Gor’kij, davanti a letterati e scrittori che Gor’kij ha il compito di formare, educare, plasmare e irreggimentare secondo le direttive del Capo supremo, quella sera buongustaio gioviale e soddisfatto di vedere che la fabbrica di intellettuali di regime sta funzionando a dovere. I buoni pranzi hanno sempre aiutato i signori e i loro favoriti a dominare chi ha lo stomaco vuoto.
In quell’ottima cena si programma infatti un viaggio collettivo d’istruzione di 120 scrittori scelti da Gor’kij per andare a visitare, in quattro vagoni del treno speciale «Freccia Rossa», il Gulag, i penitenziari di «rieducazione mediante il lavoro fisico» disseminati lungo il canale Bjelomor, costruito con l’immane e spaventoso lavoro forzato dei carcerati e con la loro ecatombe. Bjelomor, il libro collettivo scritto da 36 autori sotto la guida di Gor’kij, esce nel 1934. Questa apologia della schiavitù riporta un menu quotidiano del detenuto, che a Ljiljana Avirovic appare assai improbabile: «Mezzo litro di brodo di cavolo fresco, 300 grammi di polenta con carne, 75 grammi di cotolette di pesce con salsa, 100 grammi di pasta sfoglia con cavolo bianco». Cibo e menu sono peraltro ben presenti a questi scrittori in gita scolastica; Saša Avdeenko, giovane e di robusto appetito, scrive: «Abbiamo mangiato e bevuto quello che abbiamo voluto e quanto abbiamo potuto: salsicce affumicate, formaggi, caviale, frutta, cioccolato, vino, cognac, senza pagare niente».
Nel sapido e doloroso saggio introduttivo di Ljiljana Avirovic il Libro del cibo gustoso e salutare viene letto in tragico contrappunto a Bjelomor.
Quel libretto di cucina è una minima nota a piè di pagina della storia dell’Unione Sovietica e del tragico pervertimento e/o fallimento dei suoi proclamati valori. Pensare alla tavola, in cui cibo e vino possono diventare non solo nutrizione ma comunione di famiglia e di amicizia, è un vero pensiero rivoluzionario, che ha in mente una vita liberata, vissuta lietamente in barba al tempo che passa. Forse Lenin pensava a questo, quando diceva che una buona madre di famiglia poteva essere una commissaria del popolo, perché quelle virtù femminili, liberate dall’oppressione, sono già arte di vivere e sapienza politica.
C’è una profonda nobiltà nel progetto di liberare, con un’adeguata organizzazione del lavoro, la donna dalle fatiche domestiche che la soffocano, consentendole di essere madre che dona cibo e amore ma è libera di coltivare altri interessi come gli uomini. La Rivoluzione, in teoria, non vuol togliere alla Marta evangelica l’amore che la spinge ai fornelli, ma dovrebbe darle la possibilità di non essere schiacciata da quel lavoro e di ascoltare, come Maria, la Parola. Negata brutalmente dalla realtà sovietica, questa visione contiene in sé un reale, anche se in quel caso meramente utopico, ideale di redenzione. vero che si «rinasce vivendo fino in fondo la vita» e tanto meglio se accompagnati da un buon bicchiere; il tragico è che a dire quelle parole, quella sera d’ottobre del 1932, davanti a una tavola di schiavi travestiti da ingegneri di anime, è il compagno Stalin, che sta opprimendo, affamando e sterminando milioni di uomini.
Anche in tempi difficili i potenti mangiano bene. Il Libro del cibo gustoso e salutare riporta il menu offerto da Stalin il 21 settembre 1944 a Tito, «un gigante e un dandy», lo definisce Bettiza, e sfacciato gaudente di cui Francesco Battistini ha ricordato sul «Corriere» la dolce vita. Quella cena offertagli da Stalin comprendeva caviale rosso, storione e murena marinati, cetrioli leggermente sottaceto, gulasch alla georgiana nel vino con gnocchetti, pollo allo spiedo alla russa, funghi conservati, frittelle, mirtilli. Pane e vino, che su una tavola fraternamente imbandita suggellano l’umanità, diventano sconcia gozzoviglia nell’abbuffata dei potenti che si spartiscono la torta e si illudono di spartirsi il mondo, come quando Churchill e Stalin, a Mosca, si dividono un superbo storione e le sventurate nazioni balcaniche, 75 per cento della Romania all’influenza sovietica e 25 a quella inglese, per la Grecia il contrario e così via, mentre Churchill, tagliandosi un boccone prelibato, cede territori che, confesserà, non sa bene dove esattamente siano, come la Bessarabia. Dieci anni più tardi, nell’edizione del 1954, l’introduzione collettiva del Libro del cibo gustoso e salutare dice che, per il bene del Paese, è «necessario introdurre il sugo di pomodoro come bevanda di massa».