Massimo Mucchetti, Corriere della sera 4/5/2009, 4 maggio 2009
L’EUFORIA (TROPPA) E I CONTI
Non si è spenta ancora l’eco dell’operazione Chrysler che è subito Opel. Sergio Marchionne sta cercando di trasformare la Fiat da multinazionale con il cuore in Italia in una multinazionale radicata anche negli Stati Uniti e in Germania.
E lo sta facendo a tappe forzate perché la crisi offre l’opportunità, irrepetibile nel breve termine, di fare acquisizioni con esborsi di cassa nulli o infimi, almeno all’inizio. In cambio non si portano a casa gioielli, ma problemi che altri, più forti, preferiscono non affrontare. In attesa delle informazioni indispensabili per farsi un’idea documentata sulla grande scommessa, la storia e i bilanci possono darci qualche chiave di lettura. Per cominciare, la Fiat oggi. La Fiat è messa certamente meglio delle Big Three di Detroit. Ma non ha soldi in cassa. La crisi ha comportato un rapido rialzo del debito che, al 31 marzo, era salito a 7,4 miliardi per le attività industriali e a 16 miliardi per le attività finanziarie legate alle vendite. Prudentemente, Marchionne aveva anche accumulato 5,1 miliardi di liquidità. Che però, da soli, non bastano a far fronte ai rimborsi, 6 miliardi, previsti nei prossimi 12 mesi. L’amministratore delegato della Fiat ha spiegato che soccorrerà il cash flow di nuovo positivo nella seconda metà dell’anno, specialmente nelle macchine agricole che si gioveranno degli aiuti del governo Usa alle banche che ne finanziano le vendite.
Poi, l’antefatto. Nelle prime settimane del 2009, i Peugeot avevano studiato, con l’aiuto di Mediobanca, come integrare Fiat in Psa Peugeot Citroën. Nel 2002, quando la Fiat era sull’orlo del fallimento, la casa francese andava a gonfie vele. Adesso, invece, capitalizza metà del gruppo di Torino. Ma Psa è solo auto; la Fiat è tante cose, e l’auto, di per sé, vale meno, anche perché Fiat produce 2,2 milioni di vetture e i francesi 3,3 milioni. Questo ipotetico supergruppo dell’auto avrebbe avuto il quartier generale a Parigi e francese sarebbe stata anche la maggioranza relativa. L’ipotesi non è stata coltivata da Torino che, in questa fase, ritiene di avere un vantaggio tecnologico e un primato manageriale. Ora c’è Chrysler. E lo scenario comincia a cambiare. Ma il ritorno della Fiat negli States non sarà una passeggiata. Si tratta di travasare la cultura manifatturiera italiana in quella americana, di adattare i concessionari yankee a vendere e assistere le «piccole», di conquistare il consumatore del Midwest al risparmio energetico quando i carburanti, rispetto all’Italia, costano sempre poco. Dei 10,5 miliardi che i governi americano e canadese presteranno a Chrysler, non più della metà sarà utilizzabile dalla nuova società, essendo il resto destinato alla procedura fallimentare. vero che i sindacati hanno accettato importanti rinunce che abbassano il costo del lavoro orario. Ma non sappiamo di quanto e dunque è difficile ragionare sulle reazioni, per esempio, della Toyota che negli Usa ha già mercato e reputazione.
Le domande, quindi, sono due: fino a quando la nuova Chrysler produrrà in perdita? Basteranno i prestiti federali a raggiungere il punto di svolta? La prima risposta delle fonti ufficiose è: due anni e mezzo, tre. La seconda: questa è la scommessa imprenditoriale. I tedeschi ricordano che la grande Daimler ha tentato per 11 anni di integrarsi con Chrysler e alla fine ha gettato la spugna azzerando un investimento enorme: 77 miliardi di dollari, dato il costo medio del suo capitale. Ma quella era una Chrysler che si credeva vincente. La nuova dovrebbe essere più modesta.
E domani arriverà l’Opel? La più piccola delle case tedesche appartiene al gruppo Gm sull’orlo del crac, ma di per sé non è fallita. Se per Chrysler la Fiat ha avuto il vantaggio di trattare in solitudine, in Germania c’è un altro pretendente: l’austriaca Magna, forte nei componenti e nell’assemblaggio di vetture per conto terzi, soprattutto tedeschi. Magna offre 5 miliardi, la Fiat, si dice, 750 milioni. Magna sembra sopravvalutare il suo obiettivo. Psa, per dire, capitalizza 4,5 miliardi e vende quasi il triplo della Opel. Starà a Marchionne scoprire se, dietro a Magna, c’è qualche produttore, ma le carte le darà il governo di Berlino al quale Opel ha già chiesto 3 miliardi di aiuti. Certo, questa è tutta un’altra storia. Con la casa americana, la Fiat aggiunge un mercato e un apparato produttivo che non sono in conflitto con i suoi. Con quella tedesca le sovrapposizioni sono forti. Questo può far felici gli analisti perché il taglio dei costi aumenta i margini, ma preoccupa i sindacati perché lo stesso taglio significa meno occupati e meno salari e non tanto risparmi sugli acquisti, visto che questi già c’erano in seno al gruppo Gm, o sulle tecnologie, visto che Opel ha già il Multijet della Fiat. E in Germania, dove il costo del lavoro è più alto e i sindacati partecipano al consiglio di sorveglianza, è logico attendersi le resistenze più forti. Fiat, Chrysler, Opel, tutto per arrivare ai 6 milioni di auto, la soglia che Marchionne reputa minima per reggere nel futuro. Ma è vera questa teoria o serve a giustificare come inevitabili le trasformazioni che il progetto di Marchionne sta proponendo agli stakeholder della Fiat, azionisti e dipendenti in primo luogo?
La teoria dei 6 milioni di automobili era già stata prospettata da Giovanni Agnelli tanti anni fa, e alla fine il numero dei costruttori è aumentato. La Fiat si è risanata riducendo la produzione e condividendo con i concorrenti parte di quanto c’è sotto la carrozzeria così da abbassare radicalmente il punto di pareggio per ogni modello. Lo stesso cerca ora di fare Gm. Detto questo, Marchionne ci ha stupiti una volta. Potrebbe farlo ancora, anche perché nell’anno di crisi (o di grazia?) 2009 avrebbe come partner finanziari i governi per traghettare la Fiat verso quella che Chandler chiamava l’impresa manageriale.