Vittorio Emanuele Parsi, La stampa 5/5/2009, 5 maggio 2009
TEHERAN SALVER IL PAKISTAN
E’ cosa risaputa che la situazione in Afghanistan continui a essere tutt’altro che brillante, nonostante il progressivo potenziamento del contingente americano e il timido rilassamento dei caveat delle forze alleate. E sarebbe grave se il tragico evento occorso a Herat due giorni fa, con l’uccisione accidentale di una ragazzina ad opera di militari italiani, divenisse un pretesto per provocare un’ulteriore burocratizzazione delle regole d’ingaggio dei nostri soldati.
Quel dramma, che ci colpisce così particolarmente all’interno del più ampio dramma afghano, deve semmai ricordarci come sia irta di pericoli e di vittime, anche innocenti, la via che porta alla stabilizzazione del Paese e dell’intera regione circostante.
Che, per arrivare a destinazione, questa via debba passare per Teheran, e vedere un qualche coinvolgimento della Repubblica islamica è un’opinione che va prendendo corpo, soprattutto in Europa e anche in forza del sostegno a favore di questa ipotesi da parte della Farnesina. Secondo i più audaci sostenitori di un maggior ruolo iraniano nella crisi afghana, in questo modo sarebbe possibile contrastare il doppio e forse triplo gioco che il Pakistan sta conducendo rispetto ai talebani.
Giova ricordare che gli studenti islamici sono una creatura dell’Isi (i servizi segreti militari pachistani, potentissimi e sostanzialmente autonomi dalle autorità politiche) e che ci volle la minaccia da parte di Bush di «portare il Pakistan all’età della pietra» per convincere Musharraf a sospendere (almeno ufficialmente) l’assistenza che i propri servizi fornivano ai talebani, in termini di armi, addestramento e protezione. La crescente presenza nello stesso Pakistan dei gruppi integralisti pashtun (etnia maggioritaria in Afghanistan, fortissima anche in Pakistan e particolarmente ben rappresentata tra i quadri dell’Isi) allunga del resto più di un’ombra sulla lealtà che è lecito attendersi dallo strategico «alleato» pachistano il quale, mentre combatte l’islamismo militante al di là del confine, lo blandisce al di qua, autorizzando l’applicazione della Sharia nella valle dello Swat (a 150 km da Islamabad) o tollerando la presenza di talebani pachistani nel distretto di Bruner (100 km dalla capitale).
Washington appare particolarmente preoccupata della prospettiva che il fragile ma determinante alleato possa finire frammentato in tanti potentati de facto: un vero e proprio incubo nell’ipotesi che alcuni dei possibili «signori della guerra» si trovino a esercitare il proprio controllo su alcuni dei siti di stoccaggio delle testate nucleari pachistane (stimate tra 60 e 100), di cui Washington non conosce neppure l’esatta ubicazione. Infatti, proprio per evitare che di fronte a un simile esito gli americani potessero decidere di bombardare i siti nucleari pachistani (ipotesi alquanto rocambolesca, in realtà), le autorità pachistane si sono sempre ben guardate dal fornire a Washington informazioni troppo dettagliate al riguardo.
Ma un simile scenario è scavalcato, in peggio e di gran lunga, dalla possibilità che il Pakistan sia oggi in una situazione analoga a quella dell’Iran negli Anni 70. Nel 1979, la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini trasformò l’Iran da uno dei tre pilastri (insieme con Turchia e Israele) dell’ordine regionale patrocinato da Washington nel suo più radicale contestatore e più attivo destabilizzatore. Più di una rivoluzione in stile iraniano, con l’improbabile avvento di una teocrazia a Islamabad, ciò che viene ipotizzato è la progressiva e sempre più decisa penetrazione dell’islam radicale e dei suoi adepti all’interno dei gangli dello Stato pachistano, soprattutto degli apparati di sicurezza. Questi ultimi, proprio per i lunghi decenni di sostegno ai talebani, appaiono tutt’altro che ostili o impermeabili a quei «nemici» che dovrebbero combattere. Inoltre, e contrariamente a quanto era vero per il laico «impero» dello Sha Palhavi, lo Stato pachistano è stato già parzialmente ma pesantemente «islamizzato». Uno dei più decisi in questa direzione fu, guarda caso, un generale: quello Zhia ul Haq il cui colpo di Stato portò all’impiccagione del padre di Benazir Bhutto, a sua volta uccisa in un attentato da molti ritenuto irrealizzabile senza la partecipazione dell’Isi, proprio mentre un altro generale, Musharraf, si apprestava a lasciare il potere.
Probabilmente nemmeno Teheran sarebbe contenta di vedere una replica della sua lezione, se ciò dovesse portare alla nascita di una potenza nucleare islamica sunnita e integralista. Inutile nascondersi che un simile disastro strategico, evidentemente, rischierebbe di far pericolosamente accostare la figura di Barack Obama a Jimmy Carter (il presidente che perse l’Iran) piuttosto che a quella di Franklin Delano Roosevelt (il Presidente che donò prosperità e sicurezza all’America e al mondo). Ed è l’ultima cosa di cui il mondo e l’America hanno bisogno.