Enzo Bettiza, La stampa 4/5/2009, 4 maggio 2009
KRUSCIOV, DUE GIORNI PER CONCEPIRE IL MURO
Il Muro di Berlino, crollato il 9 novembre 1989, fu concepito a Vienna fra il 3 e il 4 giugno 1961. Lo concepì in quei due giorni l’imprevedibile Nikita Krusciov durante un paio d’incontri, insieme fatali e falliti, con il presidente John Fitzgerald Kennedy. Il vertice viennese era eccezionale sul piano mediatico e sembrava promettente su quello politico. Definito per quarantott’ore «storico» da famosi commentatori internazionali, accorsi da ogni parte nella capitale austriaca, avrebbe dovuto sminare il terreno sotto le zampate delle due superpotenze atomiche e inaugurare, all’insegna della coesistenza, un’era di distensione e di costruttivo armistizio. Accadde l’esatto contrario. L’evento, anziché preannunciare un’epoca di negoziati e di compromessi planetari, segnò l’inizio della fase più acuta e pericolosa della guerra fredda. Si può ben dire che esso partorì la prima pietra del Muro. Di lì a poco, il 13 agosto, Krusciov, sostenuto dal complice tedesco Walter Ulbricht, avrebbe conficcato una spada di cemento armato nel cuore d’Europa.
Fu proprio un giornale liberal americano il New York Times, l’unico a mettere in rilievo, con sardonica e sportiva lucidità, la potenza d’urto reciproca dei contendenti che s’accingevano a confrontarsi entro l’antico Ring di Vienna. «Kennedy – scriveva James Reston – non è soltanto un laureato di Harvard ma un irlandese attaccabrighe, che fa venire in mente un giovane pugile avviato a ricevere un diretto al mento. L’iniziativa appare tutta concentrata nei pugni di Krusciov. stato lui a prenderci alla sprovvista nel Laos ed è stato sempre lui a ributtarci a mare, appena sbarcati nella Baia dei Porci». Il disincantato editorialista, che conosceva i difetti meglio dei pregi del suo presidente, sembrava fiutare già l’imminente sinistro berlinese del peso massimo del Cremlino.
Mi trovavo sul posto come corrispondente della Stampa torinese. Volli osservare da vicino il pugile sovietico, già carico di trofei tra i quali il lancio spettacolare, recentissimo, del primo uomo intorno all’orbita terrestre. /
Il suo volto rotondo, affacciato in un sorriso stuporoso al finestrino del treno nella Ostbahnhof, mi fece pensare che gli mancava solo il pomello di plastica scarlatta sul naso per apparire un autentico clown da circo. Due piccoli occhi porcini, maliziosi, ingannatori, perdevano, ogni tanto, il loro lucore pungente per spalancarsi come smarriti su un vuoto improvviso. Quando scese dal vagone potei contemplarlo, intero, dal cappello di feltro Anni Trenta, calcato sul cranio pesante, fino agli scarponi di cuoio grasso e scuro. Ne inghiottiva il corpo adiposo una giacca sformata, d’incerto colore estivo fra beige e verdino, da cui garrivano dei pantaloni larghissimi e sventolanti come bandiere. Forte vitalità, fortissima voglia di battersi, pulsioni di violenza tenuta a freno, schizofrenia cronicizzata fin dai tempi della complicità con Stalin, parevano disputarsi l’animo del rustico sessantenne che si preparava a sondare i nervi e il cervello dell’elegante ma più insicuro presidente quarantaquattrenne degli Stati Uniti.
I due personaggi non potevano apparire più diversi. Oltre allo scarto di età e all’impressionante contrasto fisionomico, li separava un’abissale diversità nella positura dei corpi, nel gesto delle mani, nel passo delle gambe. Esemplari direi antropologici di due formazioni umane e di razze politiche agli antipodi. Da un lato l’epigono snello, ambizioso, supponente, delle dinastie di potere della East Coast, primo presidente degli Stati Uniti costruito quasi artificialmente, come un astro hollywoodiano, nei laboratori mediatici ed elettoralistici americani; il lampo del suo sorriso venne malignamente definito da Edward Crankshaw «the toothpaste advertisement smile», sorriso pubblicitario da pasta dentifricia. Dall’altro lato una specie d’archetipo gogoliano delle steppe, un greve contadino ucraino, un astuto autodidatta rotto ai peggiori intrighi e orrori del più longevo e dispotico regime poliziesco del secolo scorso. Le mogli, caricature del bello e del brutto al femminile, la sofisticata americana Jacqueline e l’opulenta matrioška Nina Petrovna, caracollante alle spalle del marito sulle gambe corte e tozze, completavano il quadro di una diversità che sarebbe stato più appropriato chiamare incomunicabilità.
Gli elementi di contrasto, che emergevano dai protagonisti e dai loro accompagnatori, erano insomma tali, così visibilmente stridenti, da far intuire in anticipo che il vertice si sarebbe chiuso in un silenzio enigmatico e inquieto. Il colore andava nettamente prevalendo sulla scarsità del risultato politico. La scena era dominata dalla rimbalzante sagoma di Krusciov che non stava mai fermo, spuntava all’improvviso dalle discussioni vuote, impartiva rapide lezioni utopistiche ai giornalisti, dando l’impressione di prendere in giro gli occidentali e un poco anche se stesso. /
In quell’estate ancora oppressa dalla guerra fredda, piena di rischi e d’incognite, il vertice viennese parve assumere, nelle primissime ore, il tono di un conciliante baratto fra i due maggiori responsabili della vita e della morte dell’umanità. Si trattava in realtà di un baratto finto e privo di contenuto. La vera natura del semivertice di Vienna, che evaporò senza comunicato congiunto nel nulla, doveva mostrarsi infine interlocutoria, inconsistente, soprattutto sibillina. Il capo sovietico e l’americano dettero la sensazione di volersi separare l’uno dall’altro quasi alla chetichella. Kennedy, deluso dall’interlocutore e ancora ignaro dei suoi piani, non desiderava dichiarare apertamente il fallimento. Per Krusciov, invece, l’incontro era stato una specie d’esame diagnostico: aveva tastato il polso e misurato la pressione di Kennedy, constatando, a torto o a ragione, che il primo era debole e la seconda bassa.
Fu allora che decise di servirsi dell’incontro come di un preludio clinico allo scontro e di alzare al massimo la giocata d’azzardo contro l’America e contro l’Europa. Tornò da Vienna a Mosca col progetto del Muro nella testa. Ne commissionò quasi subito la costruzione a Ulbricht e, già in agosto, vedemmo ergersi a ridosso di Berlino Ovest l’ottava orrenda meraviglia del mondo.