Varie, 4 maggio 2009
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KADEER Rebiya Cina 21 gennaio 1947 • «Un Dalai Lama al femminile. Musulmana. In tailleur, capo scoperto, senza velo
KADEER Rebiya Cina 21 gennaio 1947 • «Un Dalai Lama al femminile. Musulmana. In tailleur, capo scoperto, senza velo. Come lui, non violenta, ma determinata per le aspirazioni di autonomia del suo popolo e della sua terra, il Xinjiang (Nuova Frontiera) per i cinesi, Turkestan Orientale per lei e la popolazione autoctona. [...] una intera vita sotto l’autoritarismo del regime comunista, dal 2005 rifugiata negli Stati Uniti dopo sei di anni di carcere duro: prima dei quali aveva ricevuto importanti riconoscimenti ufficiali per il suo successo quale grande imprenditrice nella Cina delle riforme ma rimasta inflessibile nell’imposizione del controllo Han sulle minoranze e nella politica di assimilazione. [...] Partita con piccoli commerci da borsanerista, è arrivata a essere la donna più ricca della Cina, a capo di un gruppo immobiliare e di grande distribuzione: onorata con la nomina a membro dell’Assemblea del Popolo e della Conferenza politico consultiva, delegata alla Conferenza Onu sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995. Si dedica non solo agli affari, ma anche a attività sociali: orfanatrofi, beneficenza, scuole in lingua uigura e iniziative per tener viva la cultura uigura sommersa dall’imperialismo di quella han, predominante ufficialmentee sempre più nella pratica con il crescente arrivo nella regione di cinesi propriamente detti. Col crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza delle repubbliche asiatiche da Mosca, sorgono anche nella regione aspirazioni indipendentiste che Pechino reprime duramente, con decine di morti, centinaia di arresti. Rebiya protesta, in un discorso a porte chiuse alla sessione annuale dell’Assemblea del Popolo, a Pechino, nel 1997, davanti al capo del partito e dello stato Jiang Zemin denuncia la repressione, l’imperialismo culturale, lo sfruttamento delle ricchezze della sua terra, che si sta modernizzando, ma al caro prezzo di perdita di identità. per lei l’inizio della fine, di angherie, persecuzioni. Intanto è riuscita a far espatriare in America il marito, docente universitario, e i figli più piccoli, ma lei, pur cacciata dagli incarichi pubblici, resta a proseguire la sua lotta, finché nel 1999 viene arrestata, mentre si appresta a incontrare una delegazione di politici americani. Poco dopo sono messi in carcere anche i suoi figli maggiori: la crudeltà verso di lei si spinge a farle sentire per telefono le loro grida e i loro pianti mentre sono sotto tortura. Intanto, con l’11 settembre, la causa uigura di cui il mondo aveva avuto qualche notizia con le repressioni negli anni Novanta, perde ogni minimo sostegno: in nome della lotta al terrorismo islamico, Pechino è indisturbata nel reprimere. Ma quella prigioniera di coscienza per la quale si battono organizzazioni umanitarie – in Italia i radicali di Pannella – e politici americani anche per dimostrare sensibilità verso un Islam non estremista, è sempre più scomoda. Nel 2005, alla vigilia di una visita di Condoleeza Rice, Rebiya è liberata e messa su un aereo per gli Stati Uniti, mentre tre suoi figli restano in carcere. In America organizza gli uiguri sparsi per il mondo, continua la sua lotta non violenta contro il regime, e viene candidata al Nobel per la pace. Non lo ha avuto finora, ma le sono stati assegnati importanti riconoscimenti. [...] data in sposa a 15 anni a un uomo più anziano ma di buona posizione, di cui sopporta angherie fino a ribellarsi e lasciarlo, con scandalo nell’ambiente musulmano, provvedendo a mantenere i suoi 4 figli con un’attività in proprio, quella di lavandaia, per poi passare al mercato nero [...]» (Fernando Mezzetti, ”Il Sole-24 Ore” 3/5/2009).